Programmi di Sala

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21 maggio 2024

LEGNO - Programma di Sala

In un dipinto che raffigura l’inaugurazione del Teatro Regio di Torino, nel 1740, ai due lati estremi dell’orchestra sono ritratti due fagottisti, probabilmente Paolo Besozzi, autore prolifico per il suo strumento, e Carlo Palanca, virtuoso torinese al tempo celebre. L’opera in scena è Arsace di Francesco Feo, uno dei nomi in vista della scuola napoletana di allora, ma quel che qui interessa è la natura dei fagotti imbracciati da Besozzi e Palanca: strumenti di concezione relativamente nuova e che dalla Francia, dov’erano stati messi a punto durante il regno di Luigi XIV, si erano diffusi rapidamente in tutta Europa. In Italia la presenza del fagotto barocco è attestata inizialmente a Venezia, intorno al 1690, poi se ne seguono le tracce a Parma, Napoli, Milano, Roma e Bologna, dove ne è registrata la presenza per la prima volta nel 1702, fino ad approdare a Firenze nel 1709. I suoi interpreti erano già specializzati, la discussa parentela con la dulciana di età rinascimentale era già dimenticata e d’altra parte la tessitura della musica barocca, che tendeva a polarizzare i suoi registri estremi, aveva richiesto l’ideazione di uno strumento a fiato basso, che rinforzasse la percezione dell’armonia e all’occorrenza partecipasse alla realizzazione del basso continuo.

Il fagotto barocco era diviso in quattro parti, disponeva di tre chiavi e aveva un’articolazione diversificata, in parte corta e sottile, in parte lunga e più spessa con un’ala in alto e un’uscita a campana in basso. Passando da una regione d’Europa all’altra, però, il registro dell’accordatura poteva cambiare: sappiamo che in Francia aveva una sonorità più cupa, con il La corrispondente a una frequenza di 390 Hertz, e in Italia più brillante, salendo a 430-440 Hertz, cosa che poi divenne la regola anche nel Nord Europa. L’inventario del Pio Ospedale della Pietà di Venezia, dove Vivaldi prestò servizio dal 1703 al 1740, conta il possesso di una dulciana nel 1662 e di due nuovi fagotti a partire dal 1718. I 38 Concerti che Vivaldi dedicò a questo strumento, due dei quali incompleti, e ai quali se ne dovrebbe aggiungere uno “doppio” per oboe e fagotto, datano tutti fra il 1720 e il 1741. Come ha scritto Eleanor Selfridge-Feld in un saggio dedicato alla musica strumentale veneziana di inizio Settecento, «Vivaldi tratta il fagotto con una notevole facilità e familiarità, scrivendo con una vena che sembra vena molto più libera rispetto al suo trattamento di altri strumenti a fiato. L’idioma dello strumento è modellato su quello del violino: arpeggi, scale rapide, bassi albertini diventano elementi standard del suo linguaggio per questo strumento, insieme a salti che ne coprono l’intera tavolozza sonora». Il basso albertino, fra parentesi, è un tipo di accompagnamento arpeggiato che produce una base ritmica omogenea per la melodia e che prende il suo nome da un compositore veneziano, Domenico Alberti, che a inizio Settecento ne fece largo uso sul clavicembalo.
L’osservazione di Eleanor Selfridge-Feld, però, fa riferimento al modo in cui Vivaldi ha assegnato al fagotto un ruolo di solista, piuttosto che di accompagnamento o di riempimento. È proprio il suono gutturale, opaco del fagotto ad averlo attratto per coglierne tanto i lati patetici quanto quelli brillanti. Alternando lirismo e virtuosismo, cantabilità e agilità, Vivaldi ha inventato un lessico musicale e sentimentale che avrebbe marcato l’esistenza musicale del fagotto ben oltre l’epoca barocca, attraversando anche le successive migliorie tecniche dello strumento.
La tonalità di Sol, comune a tutti i brani in programma, nella musica di Vivaldi trasmette oltretutto un ampio spettro di sentimenti: vitalità, arguzia e piacere disinibito quando è maggiore, furia, ansia, dolore e lamento quando è minore. Così nel Concerto per archi e basso continuo KV 156 si assiste a una tipica combinazione di contrasti dinamici, complessità ritmica, senso drammatico e dialoghi orchestrali che sfociano in un’eccezionale, specie per l’epoca, intensificazione espressiva.

L'Adagio e fuga in do minore di Mozart nasce nei primi anni del suo trasferimento a Vienna, 1782-83, ma risente sia del suo stile precedente, sia degli esercizi che stava allora compiendo sul contrappunto: dalla trascrizione per quartetto d’archi e per strumento a tastiera di alcune Fughe di Bach, tratte dal Clavicembalo ben temperato e dall’Arte della fuga, fino all’abbozzo di una trascrizione per clavicembalo di una Fantasia di Froberger. Inizialmente si trattava solo di una fuga in do minore concepita per due clavicembali. Diversi anni dopo, nel 1788, Mozart vi aggiunse un’introduzione Adagio articolando il tutto in una scrittura a quattro parti per strumenti ad arco.

A partire dal 1930, tornato in Brasile dopo un soggiorno di sette anni a Parigi, Heitor Villa-Lobos si dedicò intensamente a un ruolo di diffusione del repertorio classico nel suo paese, con un’attività infaticabile di direzione d’orchestra e di promozione dell’educazione musicale. Con l’iniziativa “Excursão Artística Villa-Lobos” attraversò molte città del Brasile portando la musica classica dove non era mai stata prima, mentre con la pubblicazione di spartiti e arrangiamenti della “Colleção Escolar”, base per il lavoro di docenti e studenti nelle scuole, alternò rielaborazioni di danze brasiliane con trascrizioni per coro o per piccoli ensembles di opere classiche. La “Colleção Escolar” fu d’ispirazione per le celebri Bachianas Brasileiras ma anche per altri brani che si rifanno a materiale di origine popolare come le Cirandas, melodie giocose e per lo più infantili che Villa-Lobos elabora senza perderne il sapore originario, ma trasfigurandole in sofisticatissima eleganza. Quella chiamata Ciranda Das Sete Notas venne fin dal principio destinata al fagotto, strumento che ne rimane protagonista anche nella successiva versione di Villa-Lobos per duo con pianoforte. La prima esecuzione, diretta dall’autore, ebbe luogo a Rio de Janeiro nel 1933. Le sette note sono quelle che compongono una sorta di scala in do maggiore, dal do al si, ma che di fatto danno vita a un disegno circolare che attraversa tutta la composizione. Esposte inizialmente in contrasto con il cromatismo di quelle che le accompagano (si - si bemolle – la – sol diesis – sol– fa diesis – fa), vengono per così dire chiarite dal fagotto, al quale Villa-Lobos assegna una scrittura agile e brillante che spazia lungo tutta la sua estensione sonora, salvo farsi più lirica nelle parti lente, dove il solista sembra quasi commentare il materiale musicale affidato all’orchestra d’archi.

Stefano Catucci
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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23 aprile 2024

FOUGÈRE - Programma di Sala

Chiamiamolo Emanuel. Tutti facevano così alla sua epoca, dato che spesso avevano doppi o tripli nomi. Sappiamo che anche in casa Bach era la regola e possiamo vantare a nostra volta un diritto di familiarità se consideriamo che con un disco, un CD o un servizio in streaming possiamo ascoltare la sua musica più facilmente di quanto potesse fare lui stesso. Secondogenito di Sebastian, fu per trent’anni (1738-1768) alla corte di Federico II di Prussia, dove ebbe come superiore un flautista, compositore e costruttore di flauti, Johann Joachim Quantz, che proprio per queste sue caratteristiche divenne il preferito del re, notoriamente flautista dilettante. La gerarchia significava qualcosa alla corte di Postdam e Federico, perciò, suonava solo la musica preparata per lui da Joachim: che le molte Sonate per flauto e i sei Concerti composti da Emanuel per quello strumento fossero destinati al re è dunque da escludere, tanto più che sono tecnicamente impegnativi, mentre Joachim aveva la delicatezza di moderare le difficoltà della parte solistica. Inoltre alcuni dei Concerti di Emanuel, compreso quello in Sol maggiore H. 445, sono adattamenti di pagine originariamente destinate ad altri strumenti: in questo caso l’organo, in altri il violoncello. Quantz, dal canto suo, scrisse per sé quasi 300 concerti, cosa che fa escludere anche l’ipotesi quella musica fosse stata preparata da Emanuel per lui. Il flauto, però, era uno strumento eccezionalmente popolare in quel tempo e in quell’ambiente. Lo si considerava perfetto per un nuovo stile che si distaccava dalla tradizione barocca ed esprimeva una sensibilità più moderna, per certi aspetti già proiettata verso gli sviluppi del linguaggio classico e romantico. Lo si chiamava empfindsamer Stil, uno stile sentimentale, ricco cioè di espressività emotiva. Storicamente è stato un passaggio presto oscurato dai successivi sviluppi, ma alla metà del Settecento ebbe molta diffusione, specie in Germania, ed Emanuel ne fu il rappresentante più illustre.

Intorno alla corte di Potsdam, comunque, i flautisti non mancavano: una delle ipotesi è che Emanuel abbia composto Sonate e Concerti per alcuni dei tanti allievi di Quantz o che abbia adattato quelli per organo e per violoncello a uso di un virtuoso francese, Pierre-Gabriel Buffardin, di cui teneva nel suo appartamento un ritratto dipinto da suo figlio, che aveva chiamato Johann Sebastian come il padre. Di fatto il Concerto in Sol maggiore è quasi un manifesto dell’empfindsamer Stil: transizioni armoniche inaspettate, ritmica molto varia, frequenti cambiamenti di atmosfera, polifonia ridotta al minimo ma in compenso un senso della struttura che evidentemente rappresentava il legame più forte con l’insegnamento e l’esempio del grande padre, che in un’occasione famosa (7 maggio 1747) ebbe modo di presentare al re insieme a un altro fratello, il primogenito Wilhelm Friedemann.

Nel primo movimento di questo e di altri concerti Emanuel inizia esponendo una dopo l’altro due soggetti, quindi li sviluppa armonicamente e ritmicamente, li pone in contrasto e li riporta a sintesi nella conclusione. È l’impostazione germinale di quella che sarebbe poi diventata l’architettura per eccellenza dello stile classico, la forma-sonata. Ma è anche il segno di un’inventiva straordinaria che nelle mani di Emanuel articola ogni soggetto in una serie di sottoepisodi tematici, così che le idee si moltiplicano e si susseguono senza perdere nè coerenza né slancio. L’Adagio che si apre con un motivo patetico e il Presto finale, che già indica le movenze di un rondò ruotando intorno a una sorta di ritornello energico, permettono a Emanuel di dare piena evidenza al ruolo del solista e di sperimentare, nel rapporto con l’orchestra, soluzioni che avrebbero avuto anch’esse una lunga storia dopo di lui.

Il nome di Carl Reinecke è oggi quasi dimenticato, eppure nell’Ottocento è stata una delle figure eminenti della musica tedesca: allievo di Mendelssohn e di Liszt, amico di Schumann, con il quale aveva pure studiato per un breve periodo, maestro di Max Bruch e di tanti illustri compositori non tedeschi (fra questi il norvegese Grieg, il cèco Janáček, lo spagnolo Albéniz, il lituano Čiurlionis), Reinecke fu anche pianista di rango e direttore d’orchestra e negli anni in cui fu alla guida del Gewandhaus di Lipsia ebbe modo, fra l’altro, di condurre la prima esecuzione del Requiem tedesco di Brahms. Fra parentesi aveva anche lui molti nomi, Carl Heinrich Carsten, ma nel tempo gli usi erano cambiati e diventò più abituale farsi chiamare con il primo. Fra le sue composizioni figurano diverse Serenate, alcune per pianoforte solo. Quella per archi in Sol minore op. 242 risale al 1898, quando aveva 74 anni, ed è una sorta di libera ricapitolazione delle sue esperienze musicali. I sei movimenti in cui si articola non sono legati l’uno all’altro ma paiono concepiti come episodi distinti e rapsodici. Nell’Arioso si possono riconoscere reminiscenze schumanniane, la Cavatina ha un tempo irregolare di 5/4 e un solo di violoncello, il Finale è basato su una melodia popolare russa che probabilmente si associa alla dedica per il duca Georg Alexander von Mecklenburg-Strelitz, che in Russia aveva vissuto a lungo e che, violoncellista dilettante, aveva una propria orchestra d’archi. Il movimento più sorprendente è però la Fughetta giojosa, il cui sviluppo a quattro voci viene presentato in forma prima lineare, poi rovesciata, e infine si trasforma inaspettatamente in un allegro valzer.

Stefano Catucci
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12 marzo 2024

AGRUMI - Programma di Sala

Protagonista della rivoluzione prodotta nel Novecento dal jazz, il sassofono è rimasto sostanzialmente ai margini della musica classica. Lo strumento ideato negli anni Quaranta dell’Ottocento dal belga Adolphe Sax, trasferito a Parigi dal 1842, è stato sì presente in orchestra, talvolta anche con funzioni solistiche, ma raramente è stato esplorato allora nelle sue piene possibilità sonore ed espressive, tanto che persino uno sperimentatore di materie strumentali come Luciano Berio dedicò la sua Sequenza IX di in prima battuta al clarinetto (1980) e solo in una seconda versione (1981) la adattò alle possibilità del sax contralto. Nel passaggio fra Otto e Novecento, è significativo che la maggior parte degli autori di formazione accademica nella cui musica compare il sax solista siano stati francesi. Debussy per esempio, con la sua Rapsodia del 1911, nella quale trae da quello strumento soprattutto un colore esotico — tanto che la si chiama anche Rapsodia moresca o Rapsodia orientale — lasciandogli, di fatto, poco spazio: sembra anche che vi lavorò malvolentieri dovendo soddisfare una commissione venuta da una sassofonista americana, Elise Hall. Ravel, che notoriamente lo mette in primo piano nel Boléro per dare corpo a un’atmosfera dionisiaca, ma che lo inserì anche nell’orchestrazione dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij, nell’episodio intitolato Il vecchio castello. Più avanti Jacques Ibert, Paul Maurice e Paul Bonneau, nomi oggi meno noti, senza contare musicisti che avevano comunque trascorso lunghi periodi in Francia come Villa-Lobos.

Chi studia sassofono deve perciò rifarsi spesso a trascrizioni: c’è chi risale fino ai Concerti per flauto di Telemann, chi a Vivaldi, ma naturalmente la musica di tempi più vicini è anche la più adatta, specie se ha il lirismo e la variabilità temperamentale di Vocalise, la canzone senza parole che Rachmaninov scrisse per la voce di soprano di Antonina Nezhdanova nel 1915 e che rimane tra le sue pagine più famose. La citazione delle prime quattro note della sequenza medievale del Dies Irae, in apertura, non riflette probabilmente solo un’idea fissa di Rachmaninov, ma anche una maniera di pensare alla catastrofe della Grande Guerra, già intravista poco tempo prima nella trascrizione per voce e pianoforte di alcuni canti dalla sua Liturgia di San Giovanni Crisostomo.

Glazunov fece il suo primo incontro con il sassofono proprio a Parigi, probabilmente durante la Grande Esposizione del 1889, quando insieme a Rimskij-Korsakov diresse una serie di musiche russe per un’iniziativa patrocinata dal suo mentore, Mitrofan Beljaev. Glazunov se ne innamorò, anche se lo utilizzò soltanto verso la fine della sua vita in composizioni dedicate come il Quartetto in si bemolle, per sassofoni soprano, contralto, tenore e baritono, e il Concerto in mi bemolle per sassofono contralto e orchestra d’archi. Scritti fra il 1932 e il 1933, quando l’autore era fra i 67 e i 68 anni (sarebbe morto a 71 nel 1936), vennero pubblicati entrambi come op. 109. Glazunov era stato l’enfant gâté della nuova musica russa, compositore prolifico e instancabile anche nel promuovere opere altrui, in particolare di Balakirev e di Musorgskij, riconosciuto dai contemporanei per il suo spiccatissimo talento, in rapporti di reciproca disistima con Stravinskij e amato, invece, dal giovane Sostakovic: chissà che non vi sia proprio l’esempio di Glazunov dietro l’interesse di quest’ultimo per il sax. Prestigio e autorevolezza gli permisero di passare indenne attraverso la Rivoluzione, più per rispetto, forse, che per ammirazione. D’altra parte la sua musica non aveva niente di contrario alle direttive di partito, anzi si rifaceva a un fondo neoclassico che traspare esemplarmente anche dal Concerto per sassofono. Brillantezza e lirismo appaiono in perfetto equilibrio, con in più la sobrietà di uno strumento solista la cui voce non si presta alla retorica, ma che è trattato in modo insolitamente elegante.

Scrive Marilena Licata a proposito del suo Brainstorming, brano commissionato dall’Orchestra Filarmonica di Torino in vista di questo concerto: «Il Brainstorming è una modalità di dialogo creativo in cui, dato un argomento da trattare o problema da risolvere, ogni partecipante espone liberamente le proprie idee (anche le più assurde), che andranno poi analizzate e valutate. Seguendo lo stesso principio, il brano nasce come “gioco musicale” nel quale ogni strumentista propone ai propri compagni del materiale “su cui riflettere”, da commentare, accompagnare o contraddire con i più vari gesti musicali. L’ampia libertà esecutiva dona un margine di imprevedibilità che rende il brano un organismo “vivo”, sempre cangiante. Un episodio centrale ricrea un rigoroso ordine, scandito dai “rintocchi” ora di una viola, ora di un violoncello; ma questo equilibrio ha breve vita, con un ritorno al dialogo frenetico che degenera nel caos».

Con la suite di brani celebri di Astor Piazzolla che chiude il concerto si torna all’arrangiamento che assegna al sassofono un ruolo di rafforzamento e di esplicitazione del materiale musicale preesistente. Tutto quel che si è detto sul tango, sulla sua sensualità e il suo spleen, sulla sua nascita nei bassifondi e il suo approdo ai piani più alti del mondo musicale, deve molto all’opera di Piazzolla, il cui Nuevo Tango è stato di volta in volta glorificato o tacciato di infedeltà per averne fatto musica da concerto e non da ballo. Presentarlo in una versione non caratteristica, senza cioè l’intervento del bandoneon, serve proprio a sottolinearne i valori musicali, a cominciare da quelli melodici, e a riconoscere in Piazzolla uno dei grandi autori del Novecento musicale, capace di superare le barriere fra il popolare e il classico. La voce del sax mantiene del resto quella fisicità scabra, a tratti afona e a tratti penetrante, che evita il rischio di estetizzare troppo una musica sempre carnale e piena di passione, ricca di intimità e di sentimenti da condividere.

Stefano Catucci
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13 febbraio 2024

ORIENTE - Programma di Sala

Füsun Köksal è una delle voci più originali della nuova musica, capace di saldare le esperienze delle avanguardie del secondo Novecento con la sensibilità tutta contemporanea per un discorso più attento ai valori della comunicazione con il pubblico. Turca, formatasi negli anni Ottanta nel suo paese e nei due decenni successivi tra Germania e Stati Uniti, ha preso dalla lezione di Pierre Boulez soprattutto la ricerca timbrica, mentre da uno dei suoi modelli, Luciano Berio, il gusto per l’imprevisto, per la teatralità anche della musica strumentale e per il dialogo con il passato. On Reminiscence per orchestra d’archi è il suo lavoro più recente, scritto in vista della quarta edizione del Premio intitolato a Mario Merz, ed è una composizione che si concentra in particolare sulla percezione del tempo in musica, con le sue differenze e le sue inevitabili asincronie. Ecco le parole con le quali Füsun Köksal ha voluto presentare On Reminiscence: «come suggerisce il titolo, il brano ha una visione retrospettiva presentata attraverso strati di flusso temporale scanditi dal fenomeno della ripetizione. Il primo strato si riferisce a un tentativo di stimolo della memoria che si manifesta con la ripetizione degli stessi oggetti musicali con minimi cambiamenti fra i momenti nei quali appaiono. Lo scheletro dell’oggetto rimane lo stesso, ma in ogni ripetizione gli strumenti solisti espandono e riflettono le enunciazioni dell’orchestra attraverso sottili aggiustamenti, anche se ci troviamo continuamente ricondotti allo stato iniziale. Il secondo strato riguarda la reiterazione di idee musicali molto marcate in periodi di tempo che si ampliano. In questo caso la ripetizione si riferisce a una forma di ritorno e di memoria più concreta rispetto alla prima parte».

Nonostante una lunga vita che lo ha portato ben oltre il limite della Seconda Guerra Mondiale, la figura di Ildebrando Pizzetti resta per noi consegnata ai primi decenni del Novecento, quando ebbe modo di consolidare uno stile personalissimo, indipendente, tale da renderlo un caso a sé stante nella storia della musica italiana e proprio per questo, a torto, poco eseguito nei tempi più recenti. I Canti della stagione alta risalgono al 1930 e rappresentano per un verso un brano d’ambiente, perfetto pendant del Concerto per l’estate, sinfonia che aveva composto due anni prima. Per un altro verso sono a loro volta una forma sperimentale di sinfonia con strumento solista, dato che l’orchestra è impegnata non meno del pianoforte e che questo, pur rimanendo in primissimo piano, dialoga incessantemente con il “pieno” strumentale enunciando i temi che l’orchestra via via integrerà con variazioni, sviluppi e digressioni. Il senso di Pizzetti per la melodia non viene mai meno, ed è appunto il pianoforte a farsene carico, specie nei primi due movimenti, come se la sua funzione fosse quella di stimolare e di provocare l’orchestra. La forma è quella classica del concerto: un tempo vivace all’inizio, un Adagio al centro, forse la parte più densa di risonanze emotive, e un finale in forma di Rondò che alterna momenti vivaci ad altri più meditativi. Il corpo musicale dei Canti della stagione alta è però continuamente cangiante, fino a una conclusione ciclica che riprende prima il tema d’apertura e poi, più in generale, l’atmosfera lirica del primo movimento.

Personalità sui generis anche quella di Zoltán Kodály, compositore ungherese che condivise con Béla Bartók le ricerche etnomusicologiche sul campo ma che, vissuto da bambino nel piccolo villaggio di Galánta, oggi in Slovacchia, aveva con la musica popolare un rapporto non solo di studio, ma di formazione. La Filarmonica di Budapest gli commissionò nel 1933 un brano per celebrare i suoi 80 anni di vita e in quell’occasione Kodály annodò i suoi ricordi infantili alla conoscenza di una raccolta di danze popolari del suo paese d’origine pubblicata a Vienna più di un secolo prima. Visitando quelle regioni, nel Settecento Telemann aveva scritto che per un compositore intelligente dieci giorni passati con i musicisti ungheresi e gitani avrebbero significato dieci anni di idee per nuova musica.
Forse Kodály non conosceva la lettera in cui Telemann scriveva questa cosa, ma il suo atteggiamento è identico: scrive infatti una musica nuova, autoriale, facendo leva però sull’esuberanza di un materiale di base virtualmente inesauribile. Le sue Danze di Galánta sono vivaci, virtuosistiche, libere dal punto di vista formale, precise nel rispetto dei modelli di base e brillanti nella rielaborazione compositiva. Molti altri musicisti si sono ispirati allo stesso patrimonio popolare, primo fra tutti Brahms, ma mai come in Kodály si riconosce l’adesione di un vissuto che conferisce a queste Danze una verità espressiva senza precedenti.

Stefano Catucci
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23 gennaio 2024

CUOIO - Programma di Sala

Cresciuto in una famiglia di artisti, padre e tre fratelli pittori, pittore lui stesso, Karl Amadeus Hartmann è stata una delle personalità musicali più significative e influenti del Novecento tedesco, oggi sorprendentemente trascurata. È stato anche uno dei pochissimi a prendere posizione contro il regime nazista fin dalla presa di potere di Hitler ma a percorrere la via di una “emigrazione interna”: Hartmann rimase infatti in Germania ma si isolò dalla vita pubblica riparando a Kempfenhausen, villaggio a sud della sua nativa Monaco di Baviera, sul Lago Starnberger. Prima di questo ritiro, che non gli impedì né le scomuniche del regime né i contatti sotterranei ma intensi con il mondo musicale fuori dalla Germania, aveva fatto in tempo a far eseguire, a Praga, il poema sinfonico Miserae, che testimoniava il dramma delle deportazioni degli avversari politici del Nazismo in un nuovo campo appena costruito in Baviera e il cui nome sarebbe risuonato sinistro anche durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale: Dachau.

Concerto funebre è un’altra testimonianza dell’attenzione che Hartmann continuò a rivolgere all’attualità, come pure del fatto che aprire gli occhi, in Germania, non fosse impossibile. I tempi della scrittura, fra il luglio e l’ottobre del 1939, riflettono lo choc per gli eventi che, nei mesi precedenti, avevano preparato l’avvio della Seconda Guerra Mondiale: l’annessione della regione dei Sudeti da parte del Terzo Reich, l’occupazione della Cecoslovacchia, la creazione del protettorato tedesco di Boemia e Moravia. Hartmann guardava tutto questo come se fosse un esito tragicamente atteso e prevedibile, l’effetto coerente di una politica di privazione delle libertà ed esaltazione della potenza delle armi: «volevo scrivere tutto ciò che pensavo e sentivo», ha scritto Hartmann al suo amico e mentore Hermann Scherchen, «e questo si traduceva in forma e melodia». La musica, infatti, non ha nulla di cronachistico, ma ha il carattere di una riflessione che si allontana dai luoghi comuni della rappresentazione della guerra e della paura, ma aspira a un significato generale adottando un linguaggio comunicativo ed emotivamente molto diretto. «Alla disperazione intellettuale e spirituale del periodo si contrappone un’espressione di speranza nei due corali all’inizio e alla fine»: così scrive ancora Hartmann offrendo una chiave di lettura del Concerto funebre.

Il primo movimento, Introduzione: Largo, si basa infatti sulla melodia di un corale hussita, «Voi che siete i guerrieri di Dio», che colloca l’aspirazione alla libertà nella tradizione della cultura cèca moderna, dato che quel tema compare anche in un’opera fondativa come Má vlast (La mia patria) di Bedrich Smetana. L’Adagio successivo è invece una riflessione angosciosa sulla mancanza di speranza, una linea cantabile romantica del violino che l’orchestra rende sempre più inquieta accompagnandola quasi come una marcia militare. Nell’Allegro di Molto la frenesia e il panico sono al centro della scena, il virtuosismo è alla sua massima intensità, le fermate improvvise dell’orchestra, che lascia spazio solo ai sussurri del violino, è come un affaccio sull’orlo dell’abisso che ha per modello sonoro l’apertura del Quartetto per archi n. 5 di Bartók. Il finale, Corale, lansgsamer Marsch, ruota intorno alla citazione di una marcia funebre russa, «Vittime immortali», di cui Hermann Scherchen aveva pubblicato negli anni Venti una versione per coro dopo averla ascoltata proprio in Russia, dov’era stato prigioniero durante la Prima Guerra Mondiale: compare anche nella Sinfonia n. 11 di Sostakovic. Il tono è oscuro ma non senza aperture, la commemorazione dei caduti si collega con un’attesa di riscatto e di futuro testimoniato proprio dalla conclusione del brano. Il Concerto funebre fu eseguito per la prima volta nel 1940 a San Gallo, in Svizzera, e Hartmann riuscì a essere presente.

Nel suo libro sui rapporti fra Edward Elgar e il Modernismo musicale, Harper-Scott individua nell’aggancio al “qui e ora” dell’esistenza concreta il perno della poetica del compositore inglese. Modernista per generazione e per spirito, in continuo e conflittuale confronto con le posizioni del teorico della musica austriaco Heinrich Schenker, Elgar sarebbe stato un figlio infedele delle correnti e delle tendenze estetiche del suo tempo. Non un tradizionalista, come spesso lo si è dipinto, ma una figura indipendente che ha cercato di traghettare l’eredità del Romanticismo verso il Novecento scegliendo un’estetica anti-dialettica e, quindi, anti-beethoveniana. La Serenata in mi minore per archi op. 20 è uno dei suoi brani più noti. Risale al 1892, quando l’autore aveva 35 anni. Venne eseguita per la prima volta quattro anni dopo e manifesta esemplarmente la ricerca di Elgar, che trasfigura in eleganza i tormenti romantici e aspira a una poetica della leggerezza nella quale ogni gesto musicale sembra voler opporre un argine anche formale alle espressioni dei sentimenti tipicamente moderni della solitudine, della disperazione e della lotta.

Il Concerto in re minore BWV 1052 appartiene all’epoca in cui Johann Sebastian Bach prestava servizio alla corte del principe Leopold di Anhalt-Köthen, periodo nel quale si dedicò molto alla musica strumentale, e in particolare ai concerti con uno o più strumenti solistici, ma al quale avrebbe attinto più tardi anche quando fu maggiormente impegnato in quella sacra: i primi due movimenti del Concerto sarebbero stati da lui riutilizzati nella Cantata BWV 148 e il terzo nella Cantata 1088. La versione che ci è giunta vede in realtà nel ruolo del solista il clavicembalo ma la partitura originale, dedicata piuttosto al violino e forse a sua volta derivata da un precedente per organo, è stata in seguito più volte ricostruita fino alla Nuova Edizione delle opere di Bach (Neue Bach Ausgabe), dove Wilfried Fischer ne ha proposto nel 1970 una revisione tuttora di riferimento.
Tutti i movimenti sono in minore, caso insolito nell’opera di Bach e più in generale nel concertismo barocco, e la virtuosità della parte affidata al violino esalta il rapporto con l’orchestra in uno scambio eccezionalmente denso che ha il suo cuore, come sempre, in una pratica rigorosa e inventiva del contrappunto.

Stefano Catucci
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21 novembre 2023

CHYPRE - Programma di Sala

Quando Beethoven scrisse che la sua Sinfonia Pastorale, la n. 6, doveva essere intesa come «espressione di sentimenti» e non come «pittura», toccò un tema sensibile nella sua epoca, volendo smarcarsi dal genere allora in voga dei “ritratti” della natura in musica, ma al tempo stesso individuò un confine ambivalente. La musica infatti non produce immagini, eppure interagisce con la dimensione visiva. Non esprime significati determinati, concetti linguistici, eppure interagisce con il linguaggio anche dove non ci sono versi da cantare. Le modalità dell’interazione possono essere le più varie. Si va dal figurativismo esplicito, la cui grammatica sonora è stata fissata per la prima volta nel Barocco e trova in Vivaldi il suo esempio più illustre, all’onomatopea, basti considerare la varietà dei canti degli uccelli esplorati da Messiaen, oppure dall’allusione evocativa, come in Debussy, al ricalco dei movimenti ritmici delle nuvole, della pioggia o dell’acqua, in questo caso con una molteplicità di esempi che solo per brevità si possono ricondurre a Mendelssohn e a Wagner. In tutti i casi i sentimenti sono sempre in primo piano, si genera un tipo di percezione atmosferica che oggi sappiamo essere fondamentale in ogni processo cognitivo ma che, nel caso della musica, è soprattutto ciò che permette di trasferire l’esperienza del suono ad altri mezzi di espressione, immagine e parola in primo luogo.

I brani in programma rappresentano altrettante sfaccettature di questo discorso. Rachmaninov, per esempio, rende spesso visibili nella sua musica i percorsi interiori della meditazione anche senza doverli di necessità riferire a un’immagine o a una storia. Gli basta scurire i toni, spingerli fino a un un lirismo introspettivo, o al contrario farli esplodere nell’energia più vitale, per restituire il senso di una fantasmagoria di colori emotivi. Così è già nel suo giovanile Quartetto per archi, datato 1889, di cui portò a termine solo due movimenti quasi come un esercizio accademico ma che acconsentì fosse eseguito nella versione per orchestra d’archi, due anni dopo, da parte di una formazione di studenti del Conservatorio di Mosca. L’inglese Frederick Delius sceglie a sua volta la forma visiva degli Acquerelli per restituire immagini impressionistiche che rinviano tanto al paesaggio quanto alla figura umana: la mescolanza di stili che caratterizza molta della sua musica, sensibile anche all’influsso della matrice afroamericana, si condensa qui in composizioni che tendono alla bidimensionalità, cioè a effetti coloristici volutamente appiattiti da una scrittura che esalta l’omogeneità sonora degli strumenti ad arco.

Nelle suites delle Antiche Arie e Danze Respighi ha cercato piuttosto la via della rievocazione storica senza ricorrere alla narrazione, ma a una forma di riscrittura del passato svolta con gli occhi del presente. Nella n. 3, del 1931, la base è data da quattro opere per liuto di carattere e provenienza diversa, tre del xvi e uno del xvii secolo. Tutte vengono rivisitate e adattate alla formazione orchestrale creando un’atmosfera auratica, lontana, con passaggi che delineano sensibilmente il ritratto di un’epoca oggetto, per la sua generazione, di un interesse speciale, come fonte di un’ispirazione poetica e musicale priva di nostalgia, ma in grado semmai di aggirare l’ipoteca accesa sulla musica moderna dall’eredità del Romanticismo.

Proprio al Romanticismo guarda invece la Serenata n. 1 di Robert Fuchs, composta nel 1874. Nella maestria della scrittura, come pure nel lirismo del movimento di apertura o nella delicata grazia del secondo, in forma di minuetto, c’è la volontà di riconnettersi con un tempo perduto che di nuovo si può ricondurre a un’immagine, stavolta a un ritratto, quello di Mendelssohn. Fuchs è noto più che altro per i nomi dei musicisti che gli sono stati allievi, personalità come quelle di Hugo Wolf, Gustav Mahler, Franz Schreker. Tutte figure inquiete che lavoravano sui resti di un Romanticismo che vedevano ormai infranto nel presente e che Fuchs, forse non meno tormentato di loro, cercava piuttosto di ricomporre con ostinazione. Di qui il carattere idilliaco della Serenata e tuttavia, nel finale, l’emergere di un’ombra, un inizio nella tonalità di re minore destinato però a schiarirsi nella luce del re maggiore conclusivo. È come se con la Serenata n. 1 Fuchs avesse mostrato che il modello del Romanticismo potesse funzionare da argine protettivo contro le forze centrifughe del proprio tempo e perciò, parafrasando un celebre aforisma di Ennio Flaiano, egli sentisse di poter fare progetti solo per il passato.

Stefano Catucci
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24 ottobre 2023

OFT PARFUM - Programma di Sala

Ouverture, Scherzo e Finale è una composizione che risale a uno degli anni di grazia di Schumann, il 1841, e con la quale ha cercato una soluzione poetica per liberarsi dalle forme classiche della sinfonia. Il passaggio del materiale melodico da un movimento all’altro e l’idea di non adeguarsi alla scansione tipica dei movimenti del genere sinfonico sono già due indizi in questa direzione. Aveva scritto, in un intervento critico pubblicato nel 1839, che nelle sinfonie del suo tempo i primi movimenti somigliavano a Ouvertures, gli Scherzi erano diventati qualsiasi cosa tranne che Scherzi, i Finali sembravano non sapere niente di quello che li precedeva. Il titolo scelto, così, è costruttivamente una risposta a quella situazione, un atto di sincerità musicale che sposta il centro di gravità della scrittura sinfonica dalle strutture alle melodie e all’armonia. La decisione di rinunciare al movimento lento, inoltre, è coerente con un desiderio di leggerezza di fatto insolito nella musica di grandi ambizioni come è, a conti fatti, anche questa sua gemma.

La Quinta è la Sinfonia di Beethoven che più ha fatto versare inchiostro ai critici sia al tempo delle sue prime esecuzioni sia oggi. L’intero corpus sinfonico di Beethoven sembra esemplarmente riassunto in questo capolavoro il cui merito è stato anzitutto quello di ampliare in modo impressionante la sintassi della musica orchestrale, oltre che di innalzarne senza limiti le ambizioni. Tutta la teoria romantica della musica guarda in fondo agli orizzonti aperti da questa Sinfonia, un’opera peraltro dalla gestazione particolarmente laboriosa e dal successo non immediato. Wilhelm Furtwängler, uno dei grandi direttori d’orchestra del secolo scorso, ha scritto che «l’inizio della Quinta è così insolito da apparire unico in tutta la storia della musica. Non ci troviamo di fronte a un tema nel senso corrente del termine, ma a quattro battute che svolgono il ruolo di un’epigrafe, di un titolo a caratteri cubitali». La concisione e l’incisività, se non proprio il carattere aggressivo della musica, sono del resto aspetti che fuoriescono in modo radicale dalla costruzione tipica delle sinfonie di allora. Se si pensa che Beethoven, a 38 anni, la ultimò mentre già lavorava alla Sesta, la Pastorale, il contrasto non potrebbe essere più grande.

I quaderni di lavoro di Beethoven contengono preziose informazioni per ricostruire il percorso creativo della Quinta. I primi abbozzi risalgono all’anno 1800, mentre nei taccuini del 1804, quelli relativi al Fidelio, si trovano annotate alcune idee per il movimento di apertura. Altri appunti sono sparsi ai margini della stesura di altri lavori, come il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 e la Quarta Sinfonia. L’ultima fase di elaborazione dura un anno intero, dall’aprile del 1807 all’aprile del 1808, quando tutta una serie di idee che riguardano in particolare l’ultimo movimento vengono continuamente cancellate e rimesse a punto. Le difficoltà non riguardavano tanto l’ideazione dei singoli episodi musicali, quanto la loro riduzione a un ordine formale. Rispetto all’Eroica, la Sinfonia n. 3, Beethoven si dimostra più esigente dal punto di vista dell’organizzazione del materiale: il rispetto dell’architettura classica è addirittura rigoroso, ma non è su questo versante che la Quinta propone le sue maggiori novità. Queste vengono piuttosto dall’orchestra, allargata a strumenti che all’epoca erano in uso solo nella musica all’aperto, come l’ottavino e i tromboni, dai cui interventi provengono sonorità giustamente definite “insurrezionali”, oppure dal modo in cui i temi vengono scolpiti, quasi fossero intagliati nella natura stessa del ritmo.

Nel 1810, due anni dopo la prima esecuzione, la «Allgemeine musikalishce Zeitung», uno dei primi periodici di informazione e critica musicale della Germania, pubblicava una recensione di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, scrittore e compositore dilettante. Questo scritto, una delle principali fonti dell’immagine romantica di Beethoven, è una straordinaria esaltazione della musica, ma segna anche l’inizio di un fraintendimento, o per meglio dire di una sovrapposizione estetica che si rivelerà fatale per la comprensione del sinfonismo beethoveniano, tanto che ancora oggi ne siamo largamente debitori. Genio, ispirazione soggettiva, moventi interiori, desiderio di assoluto, sono tutte cose che dopo Hoffmann sono come legate a doppio nodo all’immagine di Beethoven, ma che trascurano quanto il compositore fosse fedele, invece, a una visione “classica” della musica, la ritenesse cioè un’arte eloquente, suscettibile di essere costruita come un discorso capace di raccontare storie, rappresentare caratteri, descrivere situazioni. Hoffmann è stato il primo a sottolineare la qualità intellettuale dell’opera di Beethoven e a esigere che l’unità delle sue composizioni fosse ricercata non nella tecnica della scrittura, che a quei tempi sembrava invece piuttosto disordinata, ma nella riflessione da cui la Sinfonia nasceva, nel pensiero che le forniva spessore e contenuto spirituale. Non bisogna dimenticare, però, che in questo pensiero beethoveniano trovano spazio anche l’architettura, il senso delle proporzioni, l’equilibrio, insomma una misura artigianale dell’artefatto musicale al cui rispetto egli non viene mai meno.

Quando fu eseguita per la prima volta, in un’accademia del 22 dicembre 1808, la Quinta non passò inosservata, ma certo nemmeno particolarmente apprezzata, a causa della lunghezza del concerto e della qualità non sempre impeccabile delle esecuzioni che l’avevano preceduta. Beethoven aveva preparato una maratona di quasi cinque ore che comprendeva in ordine di apparizione: la Sinfonia Pastorale, presentata in quell’occasione proprio come Sinfonia n. 5; una parte della Messa in do maggiore; il Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra; la parte restante della Messa; la Fantasia per pianoforte, orchestra e coro op. 80; infine la Quinta Sinfonia, che in quella serata era indicata come Sinfonia n. 6. Durante l’esecuzione della Fantasia Beethoven, che sedeva al pianoforte, si interruppe e ricominciò da capo, non è chiaro se per un errore suo o dell’orchestra, che nelle prove si era spesso ribellata al compositore. Le prime cronache, così, non parlano affatto della Quinta, ma si concentrano soprattutto su quell’incidente. A partire da un concerto organizzato a Lipsia poco più di un mese dopo, il 9 febbraio 1809, ebbe inizio invece la storia di una fortuna che è giunta fino a noi e che non smette di contagiarci con la sua misteriosa vitalità anche quando l’avessimo ascoltata mille volte.

Stefano Catucci
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06 giugno 2023

FERRO - Programma di Sala

Le ouvertures di Beethoven sono un capitolo a sé stante nella sua produzione, pagine che – come scrisse Wagner — non “anticipano” un dramma ma “sono” il dramma. Fino ad allora l’ouverture veniva di norma concepita in base a due possibili alternative: far risuonare nel brano orchestrale che introduce un’opera o una serie di musiche di scena i temi fondamentali di tutto quel che sarebbe seguito oppure non riutilizzare alla lettera i materiali successivi ma riassumerne lo spirito, il carattere, facendo così dell’introduzione una specie di commento al testo principale, rappresentato dal corpo del lavoro intero. Beethoven non percorre né l’una né l’altra strada, compiendo il primo dei passi che in epoca romantica portarono dalla sinfonia propriamente detta al poema sinfonico. Nel caso di Coriolano questo è tanto più vero perché l’ouverture non si lega a un’opera, com’è per la varie versioni di Leonora rispetto al Fidelio, e neppure a musiche di scena, com’è per l’ouverture di Le creature di Prometeo rispetto al balletto ideato nel 1801 dal coreografo Salvatore Viganò. Senza nulla che la segua, l’ouverture Coriolano fa perno su un principio di interpretazione che offre una chiave di lettura della vicenda a cui è legata.

La composizione risale al 1807, quando l’autore aveva 37 anni, e fu occasionata dalla richiesta di un letterato allora molto in voga, Heinrich Joseph von Collin, il quale aveva rielaborato per il teatro la vicenda dell’eroe romano raccontata da Plutarco nelle Vite parallele e già divenuta oggetto di un dramma di Shakespeare. Per Beethoven fu l’occasione di lavorare su un materiale psicologico ridotto all’essenziale che corrispondeva perfettamente ai due elementi contrastanti tipici della sua musica. Nei Quaderni di conversazione raccolti dall’allievo Anton Schindler li aveva definiti widerstrebende Prinzip e bittende Prinzip, “principio di opposizione” e “principio implorante”. Secondo la descrizione che ne ha dato Luigi Magnani il primo è caratterizzato «quasi costantemente da energia ritmica, da concisione melodica, da una decisa determinazione tonale», l’altro «da un tema melodico tonalmente indeterminato e modulante». Nel caso di Coriolano quei due principi si presentano senza sfumature, incarnati in due maschere teatrali che rappresentano l’una l’integrità dell’eroe che lotta contro ogni forma di potere e non si concilia con nessuna di esse — Coriolano —, l’altra un aggancio alla realtà incarnato da una donna — Volumnia —, ovvero la terra in cui anche l’eroe sente il bisogno di mettere radici.

Fin dal principio questa ouverture ha avuto una vita autonoma rispetto al dramma di Collin. Eseguita dapprima in casa del principe Lobkowitz nel marzo del 1807, fu ripresa in teatro allo Hofburgtheater il mese successivo, ma solo per poche serate. Il pianista Muzio Clementi ne aveva intanto acquistato i diritti di stampa per l’Inghilterra e, giustamente persuaso di aver concluso un buon affare, fece iniziare a questa pagina la vita concertistica che vive fino a oggi. Le anticipazioni della Sinfonia n. 5, che Beethoven avrebbe scritto di lì a poco, sono evidenti: la tonalità di do minore, la violenza delle sonorità iniziali, l’incisività ritmica delle frasi continuamente ripetute, infine la concisione con la quale tutto il materiale viene esposto e sviluppato. La continuità con l’evoluzione del linguaggio sinfonico di Beethoven non si vede però solo da quello che Coriolano anticipa, bensì anche da quello che riprende: la coda dell’ouverture, per esempio, è ricalcata sul processo di disfacimento degli elementi tematici che già aveva caratterizzato la chiusa della Marcia funebre della Sinfonia n. 3 Eroica.

Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento la storia della musica per clarinetto è strettamente dipendente dall’evoluzione costruttiva dello strumento, via via dotato di sistemi di chiavi che ne migliorarono l’intonazione, permisero di realizzare scale cromatiche più ricche, favorirono l’agilità dei virtuosi e resero più omogenea l’emissione del suono. I clarinettisti migliori furono anche quelli che si dotarono degli strumenti più avanzati e d’altra parte la loro esperienza fu uno stimolo per perfezionarli ulteriormente. Uno di questi fu Heinrich Baermann, che nell’apice della sua carriera fece parte delle orchestre di Mannheim e di Monaco di Baviera, e quanto stretto fosse il rapporto fra esecutori e costruttori lo dimostra il fatto che il figlio Carl, anche lui ottimo clarinettista, brevettò un nuovo sistema di chiavi che estese ancora le possibilità dello strumento. Weber scrisse quasi tutta la sua musica per clarinetto pensando a Baermann, anche le parti mirabili che compaiono in un’opera come Der Freischütz (Il franco cacciatore), ma certamente il suo capolavoro in questo ambito è il Concerto n. 1, scritto nel 1811, del quale Baermann fu anche il primo interprete. Tutta la delicatezza e la forza, la cantabilità e il virtuosismo, la ricchezza di sfumature che Weber trae dal clarinetto sono da mettere in relazione con l’abilità di Baermann e con la modernità del suo strumento, ormai molto diverso da quello che Mozart aveva avuto a disposizione per quel magnifico Concerto scritto pur sempre per un altro strumentista di rango, Anton Stadler. L’identificazione tra il suono del clarinetto e la voce umana è tale che Weber, nel Rondò finale, riprende una melodia concepita per l’opera Silvana, composta appena un anno prima. Operistico nel carattere è però anche il primo movimento, un Allegro nella tonalità romantica di fa minore, mentre un lirismo più intimista e sereno caratterizza il tempo centrale, Adagio ma non troppo, il quale solo nella sezione centrale assume un tratto marcatamente più inquieto.

La giovanile Sinfonia in do maggiore di Bizet, composta all’età di 17 anni ma riscoperta solo nel 1933, è una di quelle opere nate da una mano felice che probabilmente si capiscono meglio in retrospettiva, quando cioè si ha già un’idea di quel che avrebbe prodotto in seguito un autore morto a 37 anni. Con un occhio alla grande triade classica – Haydn, Mozart, Beethoven — e uno alla musica contemporanea francese — in particolare Gounod — il giovane studente di Conservatorio mostra una libertà di costruzione e di invenzione che pochi avrebbero raggiunto in una vita intera. Il senso del colore e dell’atmosfericità del suono sono già ben saldi, e se è stato lamentato un certo eclettismo stilistico, specialmente nel movimento di apertura, non si deve sottovalutare il carattere sperimentale di una Sinfonia che cerca di forzare i limiti della tradizione aprendosi verso altri generi musicali, primo fra tutti l’opera. La facilità melodica di Bizet emerge soprattutto nel movimento lento, Adagio, ma non c’è parte di questa Sinfonia che non emani fascino e non offra qualche significativa sorpresa, persino in quel finale nel quale i temi — già annunci di quanto sarebbe apparso in Carmen e in Don Procopio — si susseguono senza essere sviluppati, cioè disobbediendo ai canoni classici della sinfonia.

Stefano Catucci
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09 maggio 2023

ORO - Programma di Sala

Il 4 marzo 1791, in una serata in onore del clarinettista boemo Joseph Beer, debuttò a Vienna l’ultimo Concerto per pianoforte e orchestra di Mozart, in si bemolle maggiore (K. 595). Nel catalogo manoscritto che teneva delle proprie opere la composizione è datata 5 gennaio, due mesi prima. Per un autore di cui erano leggendarie le consegne all’ultimo minuto è un anticipo insolito e questo apre un interrogativo comune ad altre opere dei suoi ultimi anni di vita: Mozart aveva ricevuto un ordine da uno dei suoi rari committenti di allora o lo scrisse per sé in vista di un concerto per sottoscrizioni (un’accademia, come si diceva allora) che non ci fu, rassegnandosi perciò a presentarlo in una circostanza che non lo vedeva ormai nel ruolo di protagonista?

Benché sia privo di dedica e non ci siano altri documenti al riguardo, è possibile che sia stato composto su commissione di un pianista dilettante. Questo spiegherebbe non solo la distanza della prima esecuzione pubblica, ma anche la linearità della parte pianistica, meno virtuosistica di quella abituale nei Concerti che Mozart riservava a sé. Le cadenze inoltre, ossia le parti che in un Concerto sono affidate al solista senza accompagnamento dell’orchestra, sono scritte, mentre se era previsto che fosse lui a eseguirlo di solito le lasciava in bianco per dare spazio all’improvvisazione. Questi stessi elementi, d’altra parte, potrebbero essere utilizzati per sostenere la tesi opposta. La semplificazione della tecnica e la ricerca di un risultato espressivo il più possibile unitario, con la conseguente riduzione del ruolo protagonistico del solista e della sua improvvisazione, sono caratteristiche specifiche del tardo stile mozartiano così come lo sono altri aspetti di questo Concerto, in particolare il rapporto fra malinconia, senso di solitudine e aspirazione a una vita serena che si trasfigura in un ideale di semplicità.

L’impegno tecnico che il Concerto in si bemolle maggiore richiede all’esecutore è in realtà alto, ma non è appariscente, perché è posto completamente al servizio di esigenze lontane dal tono di gala e di società che era all’origine del concerto solistico come genere musicale. Anche il colore orchestrale si orienta verso un clima espressivo più raccolto, intimo, privo di accensioni retoriche e di concessioni salottiere.

Come avviene nella Sinfonia n. 40 in sol minore K. 550, composta l’anno prima, l'Allegro del Concerto K. 595 inizia con una battuta di puro accompagnamento, come se il discorso musicale al quale assistiamo fosse in realtà la continuazione di qualcosa che è già cominciato in un altrove immaginario. I temi del primo movimento non sono costruiti in modo lineare ma come un montaggio di materiali frammentari che tuttavia conservano una fisionomia cantabile, mentre il rapporto di reciproco scambio fra solista e orchestra è accentuato più che in ogni altro Concerto mozartiano. Nel secondo movimento, Larghetto , in cui risuonano echi da Le Nozze di Figaro («O mi rendi il mio tesoro…») e da La fedeltà premiata di Haydn («Bastano i pianti…è tempo di morire») la melodia gira intorno alla nota fondamentale della tonalità di base, in questo caso mi bemolle, e anche per questo appare più riposante.

Nove giorni dopo aver ultimato il Concerto K. 595 Mozart riutilizzò il tema principale dell’Allegro conclusivo per uno dei suoi Lieder più belli: Sehnsucht nach dem Frühling (Nostalgia di primavera) K. 596. La semplicità della melodia rivela come alla base di tutto il Concerto vi sia un desiderio di semplicità che non è solo nella scrittura, ma anche nella scelta di un tono popolare trasfigurato nella più alta eleganza. Qualcosa di simile a quanto accade nel Flauto magico e che nell’ultimo Mozart coincide sempre con l’affermazione di un principio di speranza.

Tre anni dopo, il 29 marzo 1795, il giovane Beethoven debuttò a Vienna nella duplice veste di compositore e di pianista nella sala del Burgtheater, con l’orchestra diretta da Antonio Salieri. Dopo avere eseguito proprio Mozart, il Concerto in re minore K. 466, propose un suo Concerto in si bemolle che sarebbe stato pubblicato solo nel 1801 come Concerto n. 2 op. 19, dato che nel frattempo vi aveva più volte rimesso sopra le mani. Ancora adesso le due cadenze che creò per il Concerto di Mozart, e che successivamente modificò per iscritto, vengono normalmente adottate dagli interpreti. Ma è in quello da lui composto che Beethoven fu il più possibile mozartiano sia nella tecnica, sia nello spirito.

C’era del calcolo in questa scelta stilistica? Voleva il compositore venticinquenne presentarsi come l’erede legittimo di Mozart? Così la pensa il curatore dell’edizione critica, Hans-Werner Küthen, che ha ricostruito i passaggi verso la pubblicazione del 1801 mettendo in il progressivo distacco di Beethoven dal modello che si era inizialmente autoimposto. I primi abbozzi risalirebbero al 1790, o forse anche a un periodo precedente: non ancora ventenne, spinto dal padre, Beethoven avrebbe scritto una pagina che riprendeva le maniere del concerto rococò ancora molto bene accolte specie per il debutto dei ragazzi-prodigio. Nel 1793, nei primissimi tempi del soggiorno a Bonn, lo avrebbe ripreso modificandone le parti più leggere e prendendo a modello direttamente Mozart, senza più preoccuparsi solo della facilità comunicativa. Nel 1795, una volta deciso che il programma della serata al Burgtheater avrebbe compreso il Concerto in re minore di Mozart, Beethoven ne avrebbe adottato rigorosamente il modello specie nel finale, Rondò: probabilmente è quello che oggi conosciamo come Rondò in si bemolle maggiore WoO6, pubblicato postumo come pezzo autonomo dall’editore Diabelli. Nel 1798, al momento di presentare quel Concerto nel corso di un’accademia interamente dedicata alle proprie musiche, Beethoven apportò nuove modifiche, eliminò alcuni dei tratti più smaccatamente ispirati a Mozart e, soprattutto, sostituì il finale con un nuovo Rondò ma non poté eliminare del tutto gli accenti mozartiani dell’opera.

Conosciamo altre due date viennesi ravvicinate con repliche del Concerto n. 2: 18 dicembre 1795 e 8 gennaio 1796 alla Redoutensaal e con la direzione di Haydn, appena tornato dalla sua ultima tournée londinese. Queste riproposte erano allora inusuali ma si può dire che in questo Beethoven fu sin dall’inizio assai poco mozartiano. Dopo un Concerto di successo, infatti, Mozart ne scriveva subito di nuovi. Beethoven, invece, preferiva non inflazionarsi e consolidare quello che aveva già fatto.

Stefano Catucci
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18 aprile 2023

STAGNO - Programma di Sala

Quando Max Bruch nacque a Colonia, nel 1838, la figura più carismatica e influente del mondo musicale di area tedesca era Felix Mendelssohn-Bartholdy. Quando morì a Berlino, nel 1920, era Arnold Schoenberg. Basta fare questi due nomi per capire quanto fosse cambiata la musica nell’arco della vita di Bruch e bisogna aggiungere solo qualche elemento ulteriore per avere un’idea del posto che riuscì a ritagliarsi in quella storia, con una perversa coda post mortem nell’unica fase in cui si trovò al centro di un conflitto indubbiamente molto più grande di lui. Avviato alla musica dalla madre, cantante, Bruch fu un talento precoce che non si staccò mai dal gusto in cui era cresciuto, quello del Romanticismo. Violinista, direttore d’orchestra, dedito soprattutto all’insegnamento, visse spostandosi tra diverse città della Germania e all’inizio degli anni Ottanta si trasferì per qualche tempo in Inghilterra, dove fu direttore dell’orchestra Royal Philharmonic di Liverpool. Quasi coetaneo di Brahms, ne condivise in parte il percorso e l’estetica. Come Brahms cominciò infatti a farsi una reputazione scrivendo musica per coro a cappella e con orchestra, cosa che nell’area culturale di lingua tedesca, caratterizzata da una massiccia diffusione di società corali di tipo semi-professionale e dilettantistico, assicurava ai compositori anche una significativa sicurezza economica. Come Brahms si interessò alla musica popolare, ma sentendosi in questo più vicino all’esperienza di altri coetanei provenienti da aree culturali diverse, per esempio a Dvořák, esplorò strade meno battute interessandosi soprattutto della musica ebraica dell’Europa centro-orientale, ashkenazita, della musica svedese e verso la fine della sua vita anche di quella italiana, in particolare scrivendo una Suite orchestrale (n. 3) ispirata a quanto aveva ascoltato a Capri durante una processione religiosa.

Proprio il lavoro che aveva svolto sulla musica ebraica fu all’origine delle sue disavventure postume giacché per via di una delle sue composizioni più celebri, Kol Nidrei per violoncello e orchestra op. 47, scritto negli anni di Liverpool, durante il Nazismo venne sospettato di ascendenze ebraiche e la sua opera venne messa all’indice. Per un autore che aveva gelosamente custodito l’eredità del Romanticismo, e che proprio per questo era stato già messo ai margini dalle generazioni più giovani, si trattò paradossalmente di una riabilitazione culturale, dato che finì per rappresentare il caso nobile e raro, se non unico, di un musicista tedesco che si era dedicato con amore allo studio della cultura ebraica senza avere legami familiari con l’ebraismo.

Il divieto colpì non solo Kol Nidrei ma tutta la produzione di Bruch, così che per un decennio in Germania non si poté eseguire neppure la sua composizione più famosa, il Concerto n. 1 per violino e orchestra. Bruch aveva cominciato a scriverlo a 26 anni, nell’estate del 1864, confessando però a uno dei suoi maestri, Ferdinand Hiller, di non sentirsi «molto sicuro in quel terreno». Nel 1866 ne completò la prima stesura ma, insoddisfatto del risultato, inviò il manoscritto a Joseph Joachim, uno dei più grandi solisti dell’epoca oltre che amico di Brahms. Joachim rispose con una serie di osservazioni che Bruch accolse rispettosamente, ma con diffidenza, come se a quel punto non si riconoscesse più in quello che aveva scritto. Si rivolse allora ad altri colleghi: all’amico direttore d’orchestra Hermann Levi, per esempio, al violinista Ferdinand David, ogni volta ricavando l’impressione che il suo Concerto aveva bisogno di essere revisionato. Joachim fu poi il musicista che lo eseguì per la prima volta a Brema nel 1868, con la direzione di Karl Reinthaler, ma nel frattempo la partitura era notevolmente cambiata tanto che Bruch affermò di averla riscritta «una dozzina di volte».

La ragione della sua fortuna sta fondamentalmente nella scioltezza melodica e nella libertà formale che Bruch adottò riservando al violino la parte del protagonista assoluto. Già l’inizio è affidato al virtuosismo del solista, con una lunga cadenza che introduce il Preludio a cui si aggancia direttamente il successivo Adagio, la parte più elaborata e classica del Concerto, costruita intorno a tre temi ben distinti e sapientemente sviluppati facendo ricorso al contrappunto. Il Finale, Allegro energico, deve il suo effetto invece a una combinazione fra il carattere avvolgente delle linee melodiche, l’adozione di un ritmo popolare di ascendenza gitana e un gesto armonico decisamente insolito, un brusco passaggio dalla tonalità di mi bemolle maggiore a quella di sol maggiore, che ha pure le sue radici nella tradizione popolare dell’Europa centro-orientale.

È nota con il titolo Piccola Russia la Sinfonia n. 2 di Čajkovskij, ma il tema popolare sul quale si apre la sua introduzione lenta e che viene intonato dal corno deriva da una canzone ucraina, La nostra madre Volga, a testimoniare quanto poco siano significativi i confini segnati dalla politica e dalla storia per la musica, per l’arte e per la cultura in genere. Vero è che l’ottima accoglienza tributata fin dal principio a questa Sinfonia, eseguita per la prima volta a Mosca nel 1873 con la direzione di Nikolaj Rubinstein, fu dovuta anche allo spirito del nazionalismo musicale: gli esponenti del Gruppo dei Cinque che in seguito avrebbero rimproverato a Čajkovskij un eccesso di occidentalismo, a partire da Mily Balakirev, vi riconobbero una piena adesione ai loro principi. Altrettanto vero, però, che le opere d’arte non si riducono al tempo, al luogo e nemmeno al clima culturale della loro nascita, altrimenti né l’Edipo Re di Sofocle né l’Amleto di Shakespeare, né il Don Giovanni di Mozart né le opere di Verdi o di Wagner avrebbero più molto da dirci, oggi, e dovremmo trattarle solo come monumenti di un passato archeologico. Nella sua Teoria del restauro Cesare Brandi ha distinto acutamente l’istanza storica e l’istanza estetica delle tracce del passato. Se di queste sopravvive solo l’istanza storica dobbiamo limitarci a conservarle come documenti d’epoca. Se invece ne è ancora percepibile l’istanza estetica quelle tracce diventano una parte importante del nostro tempo e continuano a esercitare su di noi un’influenza che Brandi riconduceva a due bellissime parole desuete da riferire, rispettivamente, la loro struttura e la loro presenza materiale: flagranza e astanza. Con questi termini potremmo riferirci alla sintesi che Čajkovskij opera, nella Sinfonia n. 2, fra cultura nazionale e cosmopolita, fra la lezione della musica occidentale e il desiderio di attingere a un patrimonio popolare i cui limiti geografici e politici sono indeterminati, proprio perché rifluiscono in un’unità estetica ancora capace di parlarci.

Il tema di La nostra madre Volga torna a farsi sentire anche nell’Allegro vivo su cui sfocia l’Andante sostenuto di apertura, nel finale un’altra melodia ucraina, La gru, si associa a ritmi di danza della tradizione russa. Nel secondo movimento Čajkovskij inserisce il motivo di una marcia nuziale da lui scritta per un’opera teatrale rimasta allo stato di un progetto, Undine, mentre nel brillante Scherzo compare un Trio di carattere popolare che sarebbe improprio riferire a un territorio specifico e può essere definito genericamente slavo. Ce n’è abbastanza per vedere in questa Sinfonia il tentativo di intrecciare fili che provengono da filiere differenti, ma soprattutto per constatare come proprio il presente abbia dato maggiore visibilità ai suoi aspetti di flagranza e di astanza. Nonostante appartenga al gruppo delle Sinfonie giovanili di Čajkovskij, nonostante il fatto che di solito si considerino mature stilisticamente solo a partire dalla Quarta, la Seconda ci appare oggi più eloquente di quanto non lo sia stata finora, alla luce di una nuova necessità culturale: quella di una musica che rimette in discussione le identità e le appartenenze in nome di un confronto con l’altro che porta non solo pace, ma anche ricchezza.

Stefano Catucci
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14 marzo 2023

ARGENTO - Programma di Sala

La metafora del mondo nuovo ha dietro di sé una lunga storia che la tinge, epoca dopo epoca, di valori differenti. C’è stato un tempo in cui del “nuovo”, in realtà, si diffidava e l’aspirazione alla giustizia, alla prosperità e alla pace si proiettava verso un mondo antico e scomparso: l’età dell’oro, la leggenda di Atlantide. C’è stato poi il periodo delle grandi esplorazioni, quando il mondo nuovo si mostrava come qualcosa di reale, anche se poi tornava a farsi sentire come metafora: per le spedizioni di Cristoforo Colombo era stato il territorio di un approdo, più propriamente indicato in italiano come “nuovo mondo”, per la filosofia di Descartes la “terra incognita” nella quale si avventurava la conoscenza metodica delle nuove scienze, in Shakespeare la meraviglia ingenua di Miranda quando, vedendo per la prima volta altri esseri umani nell’isola dominata con la magia dal padre Prospero, pronuncia estasiata la famosa frase «oh brave new world that has such people in it». C’è insomma un mondo nuovo che sta nei sogni degli imprenditori o dello spirito coloniale, uno che guarda alla sete di conoscenza, uno che riconosce bellezza in quanto non è familiare, per non parlare dell’altra isola, Utopia, concepita da Thomas More come mondo nuovo, certo, ma senza luogo alcuno sulla terra. Riprendere oggi quell’immagine, tuttavia, ha un significato diverso che si concentra sulla dimensione etica della metafora e su ciò di cui si ha più bisogno, la speranza, per intravedere almeno una via d’uscita da una situazione tragica come quella della guerra.

Ha scritto Nicola Campogrande, autore della Sinfonia che ha intitolato appunto Un mondo nuovo, che «in questi tempi di guerra» ha sentito di dover fare qualcosa, dire qualcosa con il suo linguaggio, la musica: «un compositore ha la sensibilità e i mezzi per riflettere artisticamente su quanto sta accadendo; e ha il dovere morale di guardare avanti». Il dramma diventa così occasione non solo di pensiero, ma anche di azione. Non ci ha forse insegnato Heidegger che nei tempi più bui c’è proprio bisogno del poeta perché quanto sfugge alla nostra comprensione venga almeno nominato e condiviso? Non ci ha ricordato che la parola greca da cui ha origine il termine “poesia”, il verbo poiein, significava in origine “fare”, “produrre”, e non è forse l’arte un modo di “indicare” quello di cui sentiamo la mancanza attraverso i suoi linguaggi e i suoi segni? Non è necessario attendere che una situazione si storicizzi, che il tempo passi. Anzi, come ha fatto Šostakovič, scrivere subito musica che riflette sulla guerra è un modo per denunciarne la dissennatezza, per ricordare una per una tutte le vite perdute, cosa che – è stato lui a dirlo — nessun altro tipo di monumento può fare, è una maniera di coltivare la speranza nominando la possibilità di un mondo nuovo.
Ma c’è di più: nella guerra attuale, che fra le sue conseguenze ha avuto anche l’improvviso isolamento delle popolazioni e delle persone, la rottura traumatica di reti di relazioni che apparivano fino a un attimo prima solidissime, una Sinfonia che riflette sulla guerra è anche un modo per costruire un diverso senso della comunità, dello stare e dell’operare insieme. Piero Bodrato ha scritto per l’ultimo movimento un testo che celebra l’atto del cantare «come attività umana, comune a ogni popolo, a ogni civiltà», scrive ancora Campogrande, «capace di far esistere anche ciò che sino a un istante prima non esisteva». La guerra uccide, distrugge, divide. La musica e la poesia, invece, esprimono speranza, costruiscono, uniscono, vedono con lucidità il possibile anche dove questo appare impossibile. Così ecco che in breve tempo, dalla primavera 2022 in cui è stata scritta, questa Sinfonia ha attraversato i confini, con esecuzioni in paesi come Spagna, Francia, Germania, Polonia, Lituania, Stati Uniti. Forse il mondo nuovo non deve attendere i secoli per emergere davanti ai nostri occhi, forse c’è già ed è la musica a farlo esistere attraverso il gesto che ne mostra la possibilità. Forse si identifica con la scoperta, o la riscoperta, del mondo che abbiamo in comune e nel quale siamo continuamente in relazione gli uni con gli altri. Se può sembrare irrealistico è solo perché non ascoltiamo abbastanza quel che la musica ci chiede di ascoltare, ma che proprio il contesto della guerra pretende sia pensato con la massima serietà.

L’Ouverture del Barbiere di Siviglia è uno dei tanti miracoli musicali di Rossini, ma è anche uno di quelli dei quali ha svelato il “segreto” in una lettera che rispondeva alla domanda di un giovane compositore adorante su come fossero nate le sue Ouvertures più belle. Chi scrive deve confessare di aver letto una sola volta quella lettera nel libretto di un disco mai più ritrovato, di averla cercata invano negli epistolari e di non aver chiesto per tempo a chi sicuramente conosceva la fonte: il grande amico e musicologo Arrigo Quattrocchi, rossiniano coltissimo e appassionato, scomparso troppo giovane nel 2009. Bisogna dunque fidarsi di quel che è conservato nella memoria e d’altra parte il testo era troppo “rossiniano” per sospettare che l’estensore di quel libretto se lo fosse inventato. Fidiamoci due volte dunque. Rossini si spiegava più o meno così: il segreto delle mie Ouvertures migliori, a partire da quella del Barbiere, sta nel non aver scritto ancora niente fino alla notte prima del debutto, di essere da giorni oggetto della disperazione e delle invettive degli orchestrali, ma soprattutto di avere a che fare con un impresario iracondo e tirannico il quale, disperato a sua volta, ma anche furioso al punto giusto, passa dalle minacce ai fatti chiudendoti a chiave nella tua stanza e non facendoti portare da mangiare fino a che tu non abbia fatto scivolare sotto la porta i fogli con la musica pronta. Io sono stato abbastanza fortunato, aggiungeva, ad aver lavorato con gli impresari più dispotici e isterici che si potessero incontrare, da Francesco Sforza Cesarini, che gli aveva commissionato il Barbiere per il Teatro Argentina di Roma, al leggendario Domenico Barbaja, esperto in torture per compositori renitenti. Ritardo, contesto isterico, mancanza di tempo e di sonno, fame: ecco la ricetta segreta per un’ottima Ouverture. La lettera si concludeva augurando all’ammiratore di ridursi anche lui in condizioni in cui lo scriver musica diventava un esercizio di soli nervi e di aver la benedizione di lavorare con impresari altrettanto spietati, naturalmente riducendoli alla disperazione.

Sinfonietta è un titolo che compare raramente nella storia della musica e che è stato usato solo nel Novecento o da autori che si sono dedicati poco al genere della sinfonia vera e propria, oppure che hanno scelto di combinare la scrittura sinfonica con un organico strumentale di dimensioni ridotte, come nel caso di quella di Britten. La si potrebbe definire una “sinfonia leggera”, non fosse che a volte si tratta di opere impegnative e ambiziose, come la Sinfonietta di Korngold, fra i primi a usare questo termine nel 1912, o quella di Janáček. Poulenc compose la sua nel 1947 per la BBC, ma in questo caso la scelta di chiamarla Sinfonietta può essere ricondotto all’elegante understatement del suo carattere, pieno di una vitalità e di un’ironia che si rispecchiano immediatamente nella musica. Si ponga attenzione in questo senso alla bellezza e alla classicità dell’Andante cantabile, espressivo e lieve al tempo stesso, oppure al finale brillante e «molto allegro» (très gai) che assume a tratti un colore rossiniano. L’inizio Allegro con fuoco stempera l’impostazione formalmente rigorosa con sonorità evanescenti che portano la musica verso uno spazio etereo, mentre il secondo movimento, Allegro vivace, è tutto nel segno della danza e del virtuosismo orchestrale.

Stefano Catucci
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07 febbraio 2023

PIOMBO - Programma di Sala

Igor Stravinskij, che pur nutrendo un’avversione istintiva per alcuni eccessi sentimentali — «isterici», li definì senza mezzi termini parlando con Robert Craft — vedeva in Čajkovskij l’«eroe» della sua infanzia e uno dei massimi compositori di ogni tempo, ha individuato con chiarezza la differenza tra la sua opera e quella delle correnti nazionaliste della musica russa. Elementi nazionali, sostiene Stravinskij, erano una costante anche della musica di Čajkovskij, evidenti soprattutto nel ricorso a una cantabilità di tipo popolare. Lui, però, non si faceva preoccupazioni se quegli elementi si associavano a un linguaggio francesizzato o italianizzato. Guardava alla tradizione tedesca, a Schumann e a Mendelssohn in primo luogo, risaliva più indietro fino a Mozart, ma questo — proseguiva Stravinskij — non gli ha mai impedito di rimanere autenticamente russo, così come il riferimento alla stessa costellazione di autori non ha impedito a Gounod di rimanere francese. L’impronta nazionale «sgorgava spontaneamente dalla natura musicale di Čajkovskij» senza però tradursi in una dottrina o in un programma. Čajkovskij perciò, concludeva Stravinskij, ha conservato un «carattere nazionale» nella sua musica senza diventare né «nazionalista» né «populista». Il classicismo non era stato per lui, un’opzione di stile, ma un canone morale, una sorta di argine contro la tendenza a confondere i piani dell’arte e della vita. «La verità dell’arte e la verità della vita sono due cose rigorosamente distinte», scriveva per esempio da Bayreuth sul periodico “Fogli Russi” nel 1872, quando rimproverava a Wagner di avere voluto ignorare quella distinzione forse per ingenuità, più probabilmente per presunzione. 

Un’affinità elettiva avrebbe dovuto legarlo a Brahms, del quale Čajkovskij aveva attentamente studiato l’opera. Ma che i due non si fossero compresi, in occasione di un loro incontro, e che Brahms in particolare non avesse riconosciuto la somiglianza delle loro ricerche, si deve forse al ruolo diverso che in entrambi svolgeva il riferimento all’universo classico. La cura della forma serviva a Brahms per contenere le espressioni estreme dei sentimenti, fossero di gioia o di dolore, di speranza o di sofferenza. Il richiamo della classicità aveva invece per Čajkovskij il valore della condizione che permette alla musica proprio di rischiare il contatto con l’estremo continuando a rimanere musica. Il “sentimentalismo” che gli viene addebitato è l’esito, in fondo, di questo rischio: Čajkovskij lavora la forma, gioca con la citazione, conserva un’impronta russa nel ritmo e nella fraseologia per arrivare al livello più scoperto dell’anima, quello a cui è possibile accedere proprio e solamente tramite la decantazione del linguaggio. Per questo, come ha osservato Mario Bortolotto, il pathos nella musica di Čajkovskij non è un effetto di superficie, ma un principio strutturale. Bisogna invertire un luogo comune dell’arte moderna, quello secondo cui occorre distruggere la forma per giungere all’espressione pura dei sentimenti e delle passioni. Per Čajkovskij, all’opposto, la forma e la classicità rappresentano la via maestra per immergersi nelle cavità nascoste dell’animo umano.

La musica popolare è alla base dell’Andante cantabile op. 11, movimento lento del Quartetto per archi che porta lo stesso numero d’opera, composto nel 1871, e di cui il compositore 15 anni dopo avrebbe preparato la versione per violoncello e orchestra, sulla scorta di un successo verso il quale aveva mostrato a lungo una certa insofferenza. Il pathos è in evidenza nel Pezzo capriccioso op. 62, nato per violoncello e pianoforte nel 1887 e da lui stesso trascritto nella versione orchestrale due anni dopo: se “capricciosa” è la forma, libera di articolarsi in modo fantasioso, meditativo al limite dell’introversione ne è il contenuto. La classicità predomina nelle Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra op. 33, composte nel 1876, nelle quali è esplicito il riferimento all’arte del passato e specialmente a Mozart.

Per un autore come Edvard Grieg, abituato a lavorare su forme brevi o relativamente libere, confrontarsi con un genere ben strutturato come quello del quartetto per archi rappresentava senza dubbio una sfida. Sappiamo che da studente ne scrisse uno come esercizio di composizione, ma andato perduto, mentre il Quartetto n. 2, benché inserito nel suo catalogo, è incompiuto. Il Quartetto in sol minore è perciò l’unico completo e mostra come l’autore, all’età di 35 anni, fosse guidato da un atteggiamento sperimentale, senza seguire formule consolidate. L’inizio proviene da una sua canzone, Spillamæd (Menestrelli), eseguita all’unisono dagli strumenti e da cui deriva gran parte del materiale del primo movimento. Le trasformazioni a cui viene via via sottoposto sono però più di ordine emotivo che formale, tendono cioè a privilegiare l’aspetto espressivo, facendo leva anche sul colore strumentale. È come se Grieg, in altre parole, avesse pur sempre in mente una composizione orchestrale, nella quale la densità della tessitura polifonica si riduce a vantaggio di un impatto musicale più immediato. Il contrappunto non è assente, tutt’altro, e non lo è nemmeno il rapporto di interscambio che rende paritarie le diverse voci del quartetto d’archi. E tuttavia a emergere in primo piano sono la sonorità, la teatralità messa in gioco attraverso un uso creativo dei silenzi, la ricerca di un filo conduttore che non si identifica con la forma, ma la attraversa. La melodia esposta all’inizio ricompare così in modo indiretto nel secondo movimento, esplicito nel terzo, spettacolare nel finale, quasi ad anticipare quel criterio della forma ciclica che César Franck sperimentava negli stessi anni. Il risultato è di eccezionale freschezza: è stato scritto che sia una musica non-quartettistica, che la versione per orchestra d’archi è anche timbricamente più efficace, dato che amplifica il passaggio fra le dinamiche più delicate e le più energiche. Di certo Grieg ha provato a ripensare la natura del quartetto d’archi partendo dai mezzi che conosceva, dunque dal canto e dall’orchestra tracciando, senza porselo come obiettivo, una via sulla quale si sarebbe incamminata una parte consistente della letteratura quartettistica del Novecento.

Stefano Catucci
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