06 giugno 2023
Le ouvertures di Beethoven sono un capitolo a sé stante nella sua produzione, pagine che – come scrisse Wagner — non “anticipano” un dramma ma “sono” il dramma. Fino ad allora l’ouverture veniva di norma concepita in base a due possibili alternative: far risuonare nel brano orchestrale che introduce un’opera o una serie di musiche di scena i temi fondamentali di tutto quel che sarebbe seguito oppure non riutilizzare alla lettera i materiali successivi ma riassumerne lo spirito, il carattere, facendo così dell’introduzione una specie di commento al testo principale, rappresentato dal corpo del lavoro intero. Beethoven non percorre né l’una né l’altra strada, compiendo il primo dei passi che in epoca romantica portarono dalla sinfonia propriamente detta al poema sinfonico. Nel caso di Coriolano questo è tanto più vero perché l’ouverture non si lega a un’opera, com’è per la varie versioni di Leonora rispetto al Fidelio, e neppure a musiche di scena, com’è per l’ouverture di Le creature di Prometeo rispetto al balletto ideato nel 1801 dal coreografo Salvatore Viganò. Senza nulla che la segua, l’ouverture Coriolano fa perno su un principio di interpretazione che offre una chiave di lettura della vicenda a cui è legata.
La composizione risale al 1807, quando l’autore aveva 37 anni, e fu occasionata dalla richiesta di un letterato allora molto in voga, Heinrich Joseph von Collin, il quale aveva rielaborato per il teatro la vicenda dell’eroe romano raccontata da Plutarco nelle Vite parallele e già divenuta oggetto di un dramma di Shakespeare. Per Beethoven fu l’occasione di lavorare su un materiale psicologico ridotto all’essenziale che corrispondeva perfettamente ai due elementi contrastanti tipici della sua musica. Nei Quaderni di conversazione raccolti dall’allievo Anton Schindler li aveva definiti widerstrebende Prinzip e bittende Prinzip, “principio di opposizione” e “principio implorante”. Secondo la descrizione che ne ha dato Luigi Magnani il primo è caratterizzato «quasi costantemente da energia ritmica, da concisione melodica, da una decisa determinazione tonale», l’altro «da un tema melodico tonalmente indeterminato e modulante». Nel caso di Coriolano quei due principi si presentano senza sfumature, incarnati in due maschere teatrali che rappresentano l’una l’integrità dell’eroe che lotta contro ogni forma di potere e non si concilia con nessuna di esse — Coriolano —, l’altra un aggancio alla realtà incarnato da una donna — Volumnia —, ovvero la terra in cui anche l’eroe sente il bisogno di mettere radici.
Fin dal principio questa ouverture ha avuto una vita autonoma rispetto al dramma di Collin. Eseguita dapprima in casa del principe Lobkowitz nel marzo del 1807, fu ripresa in teatro allo Hofburgtheater il mese successivo, ma solo per poche serate. Il pianista Muzio Clementi ne aveva intanto acquistato i diritti di stampa per l’Inghilterra e, giustamente persuaso di aver concluso un buon affare, fece iniziare a questa pagina la vita concertistica che vive fino a oggi. Le anticipazioni della Sinfonia n. 5, che Beethoven avrebbe scritto di lì a poco, sono evidenti: la tonalità di do minore, la violenza delle sonorità iniziali, l’incisività ritmica delle frasi continuamente ripetute, infine la concisione con la quale tutto il materiale viene esposto e sviluppato. La continuità con l’evoluzione del linguaggio sinfonico di Beethoven non si vede però solo da quello che Coriolano anticipa, bensì anche da quello che riprende: la coda dell’ouverture, per esempio, è ricalcata sul processo di disfacimento degli elementi tematici che già aveva caratterizzato la chiusa della Marcia funebre della Sinfonia n. 3 Eroica.
Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento la storia della musica per clarinetto è strettamente dipendente dall’evoluzione costruttiva dello strumento, via via dotato di sistemi di chiavi che ne migliorarono l’intonazione, permisero di realizzare scale cromatiche più ricche, favorirono l’agilità dei virtuosi e resero più omogenea l’emissione del suono. I clarinettisti migliori furono anche quelli che si dotarono degli strumenti più avanzati e d’altra parte la loro esperienza fu uno stimolo per perfezionarli ulteriormente. Uno di questi fu Heinrich Baermann, che nell’apice della sua carriera fece parte delle orchestre di Mannheim e di Monaco di Baviera, e quanto stretto fosse il rapporto fra esecutori e costruttori lo dimostra il fatto che il figlio Carl, anche lui ottimo clarinettista, brevettò un nuovo sistema di chiavi che estese ancora le possibilità dello strumento. Weber scrisse quasi tutta la sua musica per clarinetto pensando a Baermann, anche le parti mirabili che compaiono in un’opera come Der Freischütz (Il franco cacciatore), ma certamente il suo capolavoro in questo ambito è il Concerto n. 1, scritto nel 1811, del quale Baermann fu anche il primo interprete. Tutta la delicatezza e la forza, la cantabilità e il virtuosismo, la ricchezza di sfumature che Weber trae dal clarinetto sono da mettere in relazione con l’abilità di Baermann e con la modernità del suo strumento, ormai molto diverso da quello che Mozart aveva avuto a disposizione per quel magnifico Concerto scritto pur sempre per un altro strumentista di rango, Anton Stadler. L’identificazione tra il suono del clarinetto e la voce umana è tale che Weber, nel Rondò finale, riprende una melodia concepita per l’opera Silvana, composta appena un anno prima. Operistico nel carattere è però anche il primo movimento, un Allegro nella tonalità romantica di fa minore, mentre un lirismo più intimista e sereno caratterizza il tempo centrale, Adagio ma non troppo, il quale solo nella sezione centrale assume un tratto marcatamente più inquieto.
La giovanile Sinfonia in do maggiore di Bizet, composta all’età di 17 anni ma riscoperta solo nel 1933, è una di quelle opere nate da una mano felice che probabilmente si capiscono meglio in retrospettiva, quando cioè si ha già un’idea di quel che avrebbe prodotto in seguito un autore morto a 37 anni. Con un occhio alla grande triade classica – Haydn, Mozart, Beethoven — e uno alla musica contemporanea francese — in particolare Gounod — il giovane studente di Conservatorio mostra una libertà di costruzione e di invenzione che pochi avrebbero raggiunto in una vita intera. Il senso del colore e dell’atmosfericità del suono sono già ben saldi, e se è stato lamentato un certo eclettismo stilistico, specialmente nel movimento di apertura, non si deve sottovalutare il carattere sperimentale di una Sinfonia che cerca di forzare i limiti della tradizione aprendosi verso altri generi musicali, primo fra tutti l’opera. La facilità melodica di Bizet emerge soprattutto nel movimento lento, Adagio, ma non c’è parte di questa Sinfonia che non emani fascino e non offra qualche significativa sorpresa, persino in quel finale nel quale i temi — già annunci di quanto sarebbe apparso in Carmen e in Don Procopio — si susseguono senza essere sviluppati, cioè disobbediendo ai canoni classici della sinfonia.
Stefano Catucci
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09 maggio 2023
Il 4 marzo 1791, in una serata in onore del clarinettista boemo Joseph Beer, debuttò a Vienna l’ultimo Concerto per pianoforte e orchestra di Mozart, in si bemolle maggiore (K. 595). Nel catalogo manoscritto che teneva delle proprie opere la composizione è datata 5 gennaio, due mesi prima. Per un autore di cui erano leggendarie le consegne all’ultimo minuto è un anticipo insolito e questo apre un interrogativo comune ad altre opere dei suoi ultimi anni di vita: Mozart aveva ricevuto un ordine da uno dei suoi rari committenti di allora o lo scrisse per sé in vista di un concerto per sottoscrizioni (un’accademia, come si diceva allora) che non ci fu, rassegnandosi perciò a presentarlo in una circostanza che non lo vedeva ormai nel ruolo di protagonista?
Benché sia privo di dedica e non ci siano altri documenti al riguardo, è possibile che sia stato composto su commissione di un pianista dilettante. Questo spiegherebbe non solo la distanza della prima esecuzione pubblica, ma anche la linearità della parte pianistica, meno virtuosistica di quella abituale nei Concerti che Mozart riservava a sé. Le cadenze inoltre, ossia le parti che in un Concerto sono affidate al solista senza accompagnamento dell’orchestra, sono scritte, mentre se era previsto che fosse lui a eseguirlo di solito le lasciava in bianco per dare spazio all’improvvisazione. Questi stessi elementi, d’altra parte, potrebbero essere utilizzati per sostenere la tesi opposta. La semplificazione della tecnica e la ricerca di un risultato espressivo il più possibile unitario, con la conseguente riduzione del ruolo protagonistico del solista e della sua improvvisazione, sono caratteristiche specifiche del tardo stile mozartiano così come lo sono altri aspetti di questo Concerto, in particolare il rapporto fra malinconia, senso di solitudine e aspirazione a una vita serena che si trasfigura in un ideale di semplicità.
L’impegno tecnico che il Concerto in si bemolle maggiore richiede all’esecutore è in realtà alto, ma non è appariscente, perché è posto completamente al servizio di esigenze lontane dal tono di gala e di società che era all’origine del concerto solistico come genere musicale. Anche il colore orchestrale si orienta verso un clima espressivo più raccolto, intimo, privo di accensioni retoriche e di concessioni salottiere.
Come avviene nella Sinfonia n. 40 in sol minore K. 550, composta l’anno prima, l'Allegro del Concerto K. 595 inizia con una battuta di puro accompagnamento, come se il discorso musicale al quale assistiamo fosse in realtà la continuazione di qualcosa che è già cominciato in un altrove immaginario. I temi del primo movimento non sono costruiti in modo lineare ma come un montaggio di materiali frammentari che tuttavia conservano una fisionomia cantabile, mentre il rapporto di reciproco scambio fra solista e orchestra è accentuato più che in ogni altro Concerto mozartiano. Nel secondo movimento, Larghetto , in cui risuonano echi da Le Nozze di Figaro («O mi rendi il mio tesoro…») e da La fedeltà premiata di Haydn («Bastano i pianti…è tempo di morire») la melodia gira intorno alla nota fondamentale della tonalità di base, in questo caso mi bemolle, e anche per questo appare più riposante.
Nove giorni dopo aver ultimato il Concerto K. 595 Mozart riutilizzò il tema principale dell’Allegro conclusivo per uno dei suoi Lieder più belli: Sehnsucht nach dem Frühling (Nostalgia di primavera) K. 596. La semplicità della melodia rivela come alla base di tutto il Concerto vi sia un desiderio di semplicità che non è solo nella scrittura, ma anche nella scelta di un tono popolare trasfigurato nella più alta eleganza. Qualcosa di simile a quanto accade nel Flauto magico e che nell’ultimo Mozart coincide sempre con l’affermazione di un principio di speranza.
Tre anni dopo, il 29 marzo 1795, il giovane Beethoven debuttò a Vienna nella duplice veste di compositore e di pianista nella sala del Burgtheater, con l’orchestra diretta da Antonio Salieri. Dopo avere eseguito proprio Mozart, il Concerto in re minore K. 466, propose un suo Concerto in si bemolle che sarebbe stato pubblicato solo nel 1801 come Concerto n. 2 op. 19, dato che nel frattempo vi aveva più volte rimesso sopra le mani. Ancora adesso le due cadenze che creò per il Concerto di Mozart, e che successivamente modificò per iscritto, vengono normalmente adottate dagli interpreti. Ma è in quello da lui composto che Beethoven fu il più possibile mozartiano sia nella tecnica, sia nello spirito.
C’era del calcolo in questa scelta stilistica? Voleva il compositore venticinquenne presentarsi come l’erede legittimo di Mozart? Così la pensa il curatore dell’edizione critica, Hans-Werner Küthen, che ha ricostruito i passaggi verso la pubblicazione del 1801 mettendo in il progressivo distacco di Beethoven dal modello che si era inizialmente autoimposto. I primi abbozzi risalirebbero al 1790, o forse anche a un periodo precedente: non ancora ventenne, spinto dal padre, Beethoven avrebbe scritto una pagina che riprendeva le maniere del concerto rococò ancora molto bene accolte specie per il debutto dei ragazzi-prodigio. Nel 1793, nei primissimi tempi del soggiorno a Bonn, lo avrebbe ripreso modificandone le parti più leggere e prendendo a modello direttamente Mozart, senza più preoccuparsi solo della facilità comunicativa. Nel 1795, una volta deciso che il programma della serata al Burgtheater avrebbe compreso il Concerto in re minore di Mozart, Beethoven ne avrebbe adottato rigorosamente il modello specie nel finale, Rondò: probabilmente è quello che oggi conosciamo come Rondò in si bemolle maggiore WoO6, pubblicato postumo come pezzo autonomo dall’editore Diabelli. Nel 1798, al momento di presentare quel Concerto nel corso di un’accademia interamente dedicata alle proprie musiche, Beethoven apportò nuove modifiche, eliminò alcuni dei tratti più smaccatamente ispirati a Mozart e, soprattutto, sostituì il finale con un nuovo Rondò ma non poté eliminare del tutto gli accenti mozartiani dell’opera.
Conosciamo altre due date viennesi ravvicinate con repliche del Concerto n. 2: 18 dicembre 1795 e 8 gennaio 1796 alla Redoutensaal e con la direzione di Haydn, appena tornato dalla sua ultima tournée londinese. Queste riproposte erano allora inusuali ma si può dire che in questo Beethoven fu sin dall’inizio assai poco mozartiano. Dopo un Concerto di successo, infatti, Mozart ne scriveva subito di nuovi. Beethoven, invece, preferiva non inflazionarsi e consolidare quello che aveva già fatto.
Stefano Catucci
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18 aprile 2023
Quando Max Bruch nacque a Colonia, nel 1838, la figura più carismatica e influente del mondo musicale di area tedesca era Felix Mendelssohn-Bartholdy. Quando morì a Berlino, nel 1920, era Arnold Schoenberg. Basta fare questi due nomi per capire quanto fosse cambiata la musica nell’arco della vita di Bruch e bisogna aggiungere solo qualche elemento ulteriore per avere un’idea del posto che riuscì a ritagliarsi in quella storia, con una perversa coda post mortem nell’unica fase in cui si trovò al centro di un conflitto indubbiamente molto più grande di lui. Avviato alla musica dalla madre, cantante, Bruch fu un talento precoce che non si staccò mai dal gusto in cui era cresciuto, quello del Romanticismo. Violinista, direttore d’orchestra, dedito soprattutto all’insegnamento, visse spostandosi tra diverse città della Germania e all’inizio degli anni Ottanta si trasferì per qualche tempo in Inghilterra, dove fu direttore dell’orchestra Royal Philharmonic di Liverpool. Quasi coetaneo di Brahms, ne condivise in parte il percorso e l’estetica. Come Brahms cominciò infatti a farsi una reputazione scrivendo musica per coro a cappella e con orchestra, cosa che nell’area culturale di lingua tedesca, caratterizzata da una massiccia diffusione di società corali di tipo semi-professionale e dilettantistico, assicurava ai compositori anche una significativa sicurezza economica. Come Brahms si interessò alla musica popolare, ma sentendosi in questo più vicino all’esperienza di altri coetanei provenienti da aree culturali diverse, per esempio a Dvořák, esplorò strade meno battute interessandosi soprattutto della musica ebraica dell’Europa centro-orientale, ashkenazita, della musica svedese e verso la fine della sua vita anche di quella italiana, in particolare scrivendo una Suite orchestrale (n. 3) ispirata a quanto aveva ascoltato a Capri durante una processione religiosa.
Proprio il lavoro che aveva svolto sulla musica ebraica fu all’origine delle sue disavventure postume giacché per via di una delle sue composizioni più celebri, Kol Nidrei per violoncello e orchestra op. 47, scritto negli anni di Liverpool, durante il Nazismo venne sospettato di ascendenze ebraiche e la sua opera venne messa all’indice. Per un autore che aveva gelosamente custodito l’eredità del Romanticismo, e che proprio per questo era stato già messo ai margini dalle generazioni più giovani, si trattò paradossalmente di una riabilitazione culturale, dato che finì per rappresentare il caso nobile e raro, se non unico, di un musicista tedesco che si era dedicato con amore allo studio della cultura ebraica senza avere legami familiari con l’ebraismo.
Il divieto colpì non solo Kol Nidrei ma tutta la produzione di Bruch, così che per un decennio in Germania non si poté eseguire neppure la sua composizione più famosa, il Concerto n. 1 per violino e orchestra. Bruch aveva cominciato a scriverlo a 26 anni, nell’estate del 1864, confessando però a uno dei suoi maestri, Ferdinand Hiller, di non sentirsi «molto sicuro in quel terreno». Nel 1866 ne completò la prima stesura ma, insoddisfatto del risultato, inviò il manoscritto a Joseph Joachim, uno dei più grandi solisti dell’epoca oltre che amico di Brahms. Joachim rispose con una serie di osservazioni che Bruch accolse rispettosamente, ma con diffidenza, come se a quel punto non si riconoscesse più in quello che aveva scritto. Si rivolse allora ad altri colleghi: all’amico direttore d’orchestra Hermann Levi, per esempio, al violinista Ferdinand David, ogni volta ricavando l’impressione che il suo Concerto aveva bisogno di essere revisionato. Joachim fu poi il musicista che lo eseguì per la prima volta a Brema nel 1868, con la direzione di Karl Reinthaler, ma nel frattempo la partitura era notevolmente cambiata tanto che Bruch affermò di averla riscritta «una dozzina di volte».
La ragione della sua fortuna sta fondamentalmente nella scioltezza melodica e nella libertà formale che Bruch adottò riservando al violino la parte del protagonista assoluto. Già l’inizio è affidato al virtuosismo del solista, con una lunga cadenza che introduce il Preludio a cui si aggancia direttamente il successivo Adagio, la parte più elaborata e classica del Concerto, costruita intorno a tre temi ben distinti e sapientemente sviluppati facendo ricorso al contrappunto. Il Finale, Allegro energico, deve il suo effetto invece a una combinazione fra il carattere avvolgente delle linee melodiche, l’adozione di un ritmo popolare di ascendenza gitana e un gesto armonico decisamente insolito, un brusco passaggio dalla tonalità di mi bemolle maggiore a quella di sol maggiore, che ha pure le sue radici nella tradizione popolare dell’Europa centro-orientale.
È nota con il titolo Piccola Russia la Sinfonia n. 2 di Čajkovskij, ma il tema popolare sul quale si apre la sua introduzione lenta e che viene intonato dal corno deriva da una canzone ucraina, La nostra madre Volga, a testimoniare quanto poco siano significativi i confini segnati dalla politica e dalla storia per la musica, per l’arte e per la cultura in genere. Vero è che l’ottima accoglienza tributata fin dal principio a questa Sinfonia, eseguita per la prima volta a Mosca nel 1873 con la direzione di Nikolaj Rubinstein, fu dovuta anche allo spirito del nazionalismo musicale: gli esponenti del Gruppo dei Cinque che in seguito avrebbero rimproverato a Čajkovskij un eccesso di occidentalismo, a partire da Mily Balakirev, vi riconobbero una piena adesione ai loro principi. Altrettanto vero, però, che le opere d’arte non si riducono al tempo, al luogo e nemmeno al clima culturale della loro nascita, altrimenti né l’Edipo Re di Sofocle né l’Amleto di Shakespeare, né il Don Giovanni di Mozart né le opere di Verdi o di Wagner avrebbero più molto da dirci, oggi, e dovremmo trattarle solo come monumenti di un passato archeologico. Nella sua Teoria del restauro Cesare Brandi ha distinto acutamente l’istanza storica e l’istanza estetica delle tracce del passato. Se di queste sopravvive solo l’istanza storica dobbiamo limitarci a conservarle come documenti d’epoca. Se invece ne è ancora percepibile l’istanza estetica quelle tracce diventano una parte importante del nostro tempo e continuano a esercitare su di noi un’influenza che Brandi riconduceva a due bellissime parole desuete da riferire, rispettivamente, la loro struttura e la loro presenza materiale: flagranza e astanza. Con questi termini potremmo riferirci alla sintesi che Čajkovskij opera, nella Sinfonia n. 2, fra cultura nazionale e cosmopolita, fra la lezione della musica occidentale e il desiderio di attingere a un patrimonio popolare i cui limiti geografici e politici sono indeterminati, proprio perché rifluiscono in un’unità estetica ancora capace di parlarci.
Il tema di La nostra madre Volga torna a farsi sentire anche nell’Allegro vivo su cui sfocia l’Andante sostenuto di apertura, nel finale un’altra melodia ucraina, La gru, si associa a ritmi di danza della tradizione russa. Nel secondo movimento Čajkovskij inserisce il motivo di una marcia nuziale da lui scritta per un’opera teatrale rimasta allo stato di un progetto, Undine, mentre nel brillante Scherzo compare un Trio di carattere popolare che sarebbe improprio riferire a un territorio specifico e può essere definito genericamente slavo. Ce n’è abbastanza per vedere in questa Sinfonia il tentativo di intrecciare fili che provengono da filiere differenti, ma soprattutto per constatare come proprio il presente abbia dato maggiore visibilità ai suoi aspetti di flagranza e di astanza. Nonostante appartenga al gruppo delle Sinfonie giovanili di Čajkovskij, nonostante il fatto che di solito si considerino mature stilisticamente solo a partire dalla Quarta, la Seconda ci appare oggi più eloquente di quanto non lo sia stata finora, alla luce di una nuova necessità culturale: quella di una musica che rimette in discussione le identità e le appartenenze in nome di un confronto con l’altro che porta non solo pace, ma anche ricchezza.
Stefano Catucci
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14 marzo 2023
La metafora del mondo nuovo ha dietro di sé una lunga storia che la tinge, epoca dopo epoca, di valori differenti. C’è stato un tempo in cui del “nuovo”, in realtà, si diffidava e l’aspirazione alla giustizia, alla prosperità e alla pace si proiettava verso un mondo antico e scomparso: l’età dell’oro, la leggenda di Atlantide. C’è stato poi il periodo delle grandi esplorazioni, quando il mondo nuovo si mostrava come qualcosa di reale, anche se poi tornava a farsi sentire come metafora: per le spedizioni di Cristoforo Colombo era stato il territorio di un approdo, più propriamente indicato in italiano come “nuovo mondo”, per la filosofia di Descartes la “terra incognita” nella quale si avventurava la conoscenza metodica delle nuove scienze, in Shakespeare la meraviglia ingenua di Miranda quando, vedendo per la prima volta altri esseri umani nell’isola dominata con la magia dal padre Prospero, pronuncia estasiata la famosa frase «oh brave new world that has such people in it». C’è insomma un mondo nuovo che sta nei sogni degli imprenditori o dello spirito coloniale, uno che guarda alla sete di conoscenza, uno che riconosce bellezza in quanto non è familiare, per non parlare dell’altra isola, Utopia, concepita da Thomas More come mondo nuovo, certo, ma senza luogo alcuno sulla terra. Riprendere oggi quell’immagine, tuttavia, ha un significato diverso che si concentra sulla dimensione etica della metafora e su ciò di cui si ha più bisogno, la speranza, per intravedere almeno una via d’uscita da una situazione tragica come quella della guerra.
Ha scritto Nicola Campogrande, autore della Sinfonia che ha intitolato appunto Un mondo nuovo, che «in questi tempi di guerra» ha sentito di dover fare qualcosa, dire qualcosa con il suo linguaggio, la musica: «un compositore ha la sensibilità e i mezzi per riflettere artisticamente su quanto sta accadendo; e ha il dovere morale di guardare avanti». Il dramma diventa così occasione non solo di pensiero, ma anche di azione. Non ci ha forse insegnato Heidegger che nei tempi più bui c’è proprio bisogno del poeta perché quanto sfugge alla nostra comprensione venga almeno nominato e condiviso? Non ci ha ricordato che la parola greca da cui ha origine il termine “poesia”, il verbo poiein, significava in origine “fare”, “produrre”, e non è forse l’arte un modo di “indicare” quello di cui sentiamo la mancanza attraverso i suoi linguaggi e i suoi segni? Non è necessario attendere che una situazione si storicizzi, che il tempo passi. Anzi, come ha fatto Šostakovič, scrivere subito musica che riflette sulla guerra è un modo per denunciarne la dissennatezza, per ricordare una per una tutte le vite perdute, cosa che – è stato lui a dirlo — nessun altro tipo di monumento può fare, è una maniera di coltivare la speranza nominando la possibilità di un mondo nuovo.
Ma c’è di più: nella guerra attuale, che fra le sue conseguenze ha avuto anche l’improvviso isolamento delle popolazioni e delle persone, la rottura traumatica di reti di relazioni che apparivano fino a un attimo prima solidissime, una Sinfonia che riflette sulla guerra è anche un modo per costruire un diverso senso della comunità, dello stare e dell’operare insieme. Piero Bodrato ha scritto per l’ultimo movimento un testo che celebra l’atto del cantare «come attività umana, comune a ogni popolo, a ogni civiltà», scrive ancora Campogrande, «capace di far esistere anche ciò che sino a un istante prima non esisteva». La guerra uccide, distrugge, divide. La musica e la poesia, invece, esprimono speranza, costruiscono, uniscono, vedono con lucidità il possibile anche dove questo appare impossibile. Così ecco che in breve tempo, dalla primavera 2022 in cui è stata scritta, questa Sinfonia ha attraversato i confini, con esecuzioni in paesi come Spagna, Francia, Germania, Polonia, Lituania, Stati Uniti. Forse il mondo nuovo non deve attendere i secoli per emergere davanti ai nostri occhi, forse c’è già ed è la musica a farlo esistere attraverso il gesto che ne mostra la possibilità. Forse si identifica con la scoperta, o la riscoperta, del mondo che abbiamo in comune e nel quale siamo continuamente in relazione gli uni con gli altri. Se può sembrare irrealistico è solo perché non ascoltiamo abbastanza quel che la musica ci chiede di ascoltare, ma che proprio il contesto della guerra pretende sia pensato con la massima serietà.
L’Ouverture del Barbiere di Siviglia è uno dei tanti miracoli musicali di Rossini, ma è anche uno di quelli dei quali ha svelato il “segreto” in una lettera che rispondeva alla domanda di un giovane compositore adorante su come fossero nate le sue Ouvertures più belle. Chi scrive deve confessare di aver letto una sola volta quella lettera nel libretto di un disco mai più ritrovato, di averla cercata invano negli epistolari e di non aver chiesto per tempo a chi sicuramente conosceva la fonte: il grande amico e musicologo Arrigo Quattrocchi, rossiniano coltissimo e appassionato, scomparso troppo giovane nel 2009. Bisogna dunque fidarsi di quel che è conservato nella memoria e d’altra parte il testo era troppo “rossiniano” per sospettare che l’estensore di quel libretto se lo fosse inventato. Fidiamoci due volte dunque. Rossini si spiegava più o meno così: il segreto delle mie Ouvertures migliori, a partire da quella del Barbiere, sta nel non aver scritto ancora niente fino alla notte prima del debutto, di essere da giorni oggetto della disperazione e delle invettive degli orchestrali, ma soprattutto di avere a che fare con un impresario iracondo e tirannico il quale, disperato a sua volta, ma anche furioso al punto giusto, passa dalle minacce ai fatti chiudendoti a chiave nella tua stanza e non facendoti portare da mangiare fino a che tu non abbia fatto scivolare sotto la porta i fogli con la musica pronta. Io sono stato abbastanza fortunato, aggiungeva, ad aver lavorato con gli impresari più dispotici e isterici che si potessero incontrare, da Francesco Sforza Cesarini, che gli aveva commissionato il Barbiere per il Teatro Argentina di Roma, al leggendario Domenico Barbaja, esperto in torture per compositori renitenti. Ritardo, contesto isterico, mancanza di tempo e di sonno, fame: ecco la ricetta segreta per un’ottima Ouverture. La lettera si concludeva augurando all’ammiratore di ridursi anche lui in condizioni in cui lo scriver musica diventava un esercizio di soli nervi e di aver la benedizione di lavorare con impresari altrettanto spietati, naturalmente riducendoli alla disperazione.
Sinfonietta è un titolo che compare raramente nella storia della musica e che è stato usato solo nel Novecento o da autori che si sono dedicati poco al genere della sinfonia vera e propria, oppure che hanno scelto di combinare la scrittura sinfonica con un organico strumentale di dimensioni ridotte, come nel caso di quella di Britten. La si potrebbe definire una “sinfonia leggera”, non fosse che a volte si tratta di opere impegnative e ambiziose, come la Sinfonietta di Korngold, fra i primi a usare questo termine nel 1912, o quella di Janáček. Poulenc compose la sua nel 1947 per la BBC, ma in questo caso la scelta di chiamarla Sinfonietta può essere ricondotto all’elegante understatement del suo carattere, pieno di una vitalità e di un’ironia che si rispecchiano immediatamente nella musica. Si ponga attenzione in questo senso alla bellezza e alla classicità dell’Andante cantabile, espressivo e lieve al tempo stesso, oppure al finale brillante e «molto allegro» (très gai) che assume a tratti un colore rossiniano. L’inizio Allegro con fuoco stempera l’impostazione formalmente rigorosa con sonorità evanescenti che portano la musica verso uno spazio etereo, mentre il secondo movimento, Allegro vivace, è tutto nel segno della danza e del virtuosismo orchestrale.
Stefano Catucci
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07 febbraio 2023
Igor Stravinskij, che pur nutrendo un’avversione istintiva per alcuni eccessi sentimentali — «isterici», li definì senza mezzi termini parlando con Robert Craft — vedeva in Čajkovskij l’«eroe» della sua infanzia e uno dei massimi compositori di ogni tempo, ha individuato con chiarezza la differenza tra la sua opera e quella delle correnti nazionaliste della musica russa. Elementi nazionali, sostiene Stravinskij, erano una costante anche della musica di Čajkovskij, evidenti soprattutto nel ricorso a una cantabilità di tipo popolare. Lui, però, non si faceva preoccupazioni se quegli elementi si associavano a un linguaggio francesizzato o italianizzato. Guardava alla tradizione tedesca, a Schumann e a Mendelssohn in primo luogo, risaliva più indietro fino a Mozart, ma questo — proseguiva Stravinskij — non gli ha mai impedito di rimanere autenticamente russo, così come il riferimento alla stessa costellazione di autori non ha impedito a Gounod di rimanere francese. L’impronta nazionale «sgorgava spontaneamente dalla natura musicale di Čajkovskij» senza però tradursi in una dottrina o in un programma. Čajkovskij perciò, concludeva Stravinskij, ha conservato un «carattere nazionale» nella sua musica senza diventare né «nazionalista» né «populista». Il classicismo non era stato per lui, un’opzione di stile, ma un canone morale, una sorta di argine contro la tendenza a confondere i piani dell’arte e della vita. «La verità dell’arte e la verità della vita sono due cose rigorosamente distinte», scriveva per esempio da Bayreuth sul periodico “Fogli Russi” nel 1872, quando rimproverava a Wagner di avere voluto ignorare quella distinzione forse per ingenuità, più probabilmente per presunzione.
Un’affinità elettiva avrebbe dovuto legarlo a Brahms, del quale Čajkovskij aveva attentamente studiato l’opera. Ma che i due non si fossero compresi, in occasione di un loro incontro, e che Brahms in particolare non avesse riconosciuto la somiglianza delle loro ricerche, si deve forse al ruolo diverso che in entrambi svolgeva il riferimento all’universo classico. La cura della forma serviva a Brahms per contenere le espressioni estreme dei sentimenti, fossero di gioia o di dolore, di speranza o di sofferenza. Il richiamo della classicità aveva invece per Čajkovskij il valore della condizione che permette alla musica proprio di rischiare il contatto con l’estremo continuando a rimanere musica. Il “sentimentalismo” che gli viene addebitato è l’esito, in fondo, di questo rischio: Čajkovskij lavora la forma, gioca con la citazione, conserva un’impronta russa nel ritmo e nella fraseologia per arrivare al livello più scoperto dell’anima, quello a cui è possibile accedere proprio e solamente tramite la decantazione del linguaggio. Per questo, come ha osservato Mario Bortolotto, il pathos nella musica di Čajkovskij non è un effetto di superficie, ma un principio strutturale. Bisogna invertire un luogo comune dell’arte moderna, quello secondo cui occorre distruggere la forma per giungere all’espressione pura dei sentimenti e delle passioni. Per Čajkovskij, all’opposto, la forma e la classicità rappresentano la via maestra per immergersi nelle cavità nascoste dell’animo umano.
La musica popolare è alla base dell’Andante cantabile op. 11, movimento lento del Quartetto per archi che porta lo stesso numero d’opera, composto nel 1871, e di cui il compositore 15 anni dopo avrebbe preparato la versione per violoncello e orchestra, sulla scorta di un successo verso il quale aveva mostrato a lungo una certa insofferenza. Il pathos è in evidenza nel Pezzo capriccioso op. 62, nato per violoncello e pianoforte nel 1887 e da lui stesso trascritto nella versione orchestrale due anni dopo: se “capricciosa” è la forma, libera di articolarsi in modo fantasioso, meditativo al limite dell’introversione ne è il contenuto. La classicità predomina nelle Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra op. 33, composte nel 1876, nelle quali è esplicito il riferimento all’arte del passato e specialmente a Mozart.
Per un autore come Edvard Grieg, abituato a lavorare su forme brevi o relativamente libere, confrontarsi con un genere ben strutturato come quello del quartetto per archi rappresentava senza dubbio una sfida. Sappiamo che da studente ne scrisse uno come esercizio di composizione, ma andato perduto, mentre il Quartetto n. 2, benché inserito nel suo catalogo, è incompiuto. Il Quartetto in sol minore è perciò l’unico completo e mostra come l’autore, all’età di 35 anni, fosse guidato da un atteggiamento sperimentale, senza seguire formule consolidate. L’inizio proviene da una sua canzone, Spillamæd (Menestrelli), eseguita all’unisono dagli strumenti e da cui deriva gran parte del materiale del primo movimento. Le trasformazioni a cui viene via via sottoposto sono però più di ordine emotivo che formale, tendono cioè a privilegiare l’aspetto espressivo, facendo leva anche sul colore strumentale. È come se Grieg, in altre parole, avesse pur sempre in mente una composizione orchestrale, nella quale la densità della tessitura polifonica si riduce a vantaggio di un impatto musicale più immediato. Il contrappunto non è assente, tutt’altro, e non lo è nemmeno il rapporto di interscambio che rende paritarie le diverse voci del quartetto d’archi. E tuttavia a emergere in primo piano sono la sonorità, la teatralità messa in gioco attraverso un uso creativo dei silenzi, la ricerca di un filo conduttore che non si identifica con la forma, ma la attraversa. La melodia esposta all’inizio ricompare così in modo indiretto nel secondo movimento, esplicito nel terzo, spettacolare nel finale, quasi ad anticipare quel criterio della forma ciclica che César Franck sperimentava negli stessi anni. Il risultato è di eccezionale freschezza: è stato scritto che sia una musica non-quartettistica, che la versione per orchestra d’archi è anche timbricamente più efficace, dato che amplifica il passaggio fra le dinamiche più delicate e le più energiche. Di certo Grieg ha provato a ripensare la natura del quartetto d’archi partendo dai mezzi che conosceva, dunque dal canto e dall’orchestra tracciando, senza porselo come obiettivo, una via sulla quale si sarebbe incamminata una parte consistente della letteratura quartettistica del Novecento.
Stefano Catucci
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17 gennaio 2023
Entrare nel laboratorio di un artista, nella fattispecie di un compositore, è sempre un’esperienza emozionante, anche se si colloca pur sempre a metà strada fra l’archeologia e il voyeurismo. Studiare un manoscritto, confrontarlo con l’edizione eventualmente pubblicata di quella musica, soffermarsi sulle cancellature o sulle correzioni, vedere cosa sia stato tolto, sostituito, aggiunto, è un modo per ricostruire un processo creativo e artigianale che a volte può portare a scoprire dei comportamenti ricorrenti o persino l’evoluzione di un gusto, oltre che di uno stile. D’altra parte come nasca un’opera, cioè come sorgano e come si elaborino le idee, è qualcosa che rimane al di là di ogni traccia scritta, autografa o stampata. Dalla scrittura a mano di un compositore possiamo capire quando abbia impresso i suoi segni sulla carta con più fretta, a volte cos’abbia annotato prima e cosa dopo, mentre se un’edizione a stampa riporta in concerti diversi lo stesso Largo — succede nell’opera di Vivaldi — possiamo ricavarne l’immagine di un mestiere, ma non certo quella dell’invenzione che, quando c’è, rappresenta un momento di discontinuità rispetto a quanto si può trarre da un’analisi.
C’è però un altro modo più arrischiato per entrare nel laboratorio di un autore, che consiste nell’appropriarsi delle sue tecniche e nell’aggiungervi un’invenzione nuova. Non limitarsi all’analisi del filologo, insomma, ma mettersi per così dire nelle scarpe di un musicista per ripeterne i passi e trovare nella superficie che essi percorrono lo spazio in cui l’idea creativa emerge. È un rischio perché la prima impressione può essere che ci si limiti a un’imitazione — succede anche questo — o a una parodia. In casi più rari, invece, è come se dall’appropriazione di ciò che è altrui si individuasse il luogo adatto per l’apparizione dell’inedito, in casi rarissimi questo processo porta anche alla comprensione del modello originale, ovvero quel che resta nascosto all’analisi storico-filologica: il momento creativo. Esempi del primo caso possono essere quelli di Michael Nyman che prende da Purcell le ripetizioni ritmiche e armoniche da cui far scaturire una nuova forma di contemporaneo minimalismo, o di Max Richter che proprio scomponendo in frammenti e ricomponendo cellule della musica di Vivaldi trae dei semilavorati d’autore che rivelano modalità della percezione e dell’ascolto. Il caso di Federico Maria Sardelli appartiene alla seconda specie. Conoscitore eccezionale dell’opera, della vita e del contesto storico vivaldiano, Sardelli non scrive né con l’idea di modificare uno stile contemporaneo, né di produrre dei Vivaldi decostruiti che giocano con le forme attuali del gusto e dell’attenzione. I suoi sono piuttosto esperimenti da cui si viene riportati verso il processo creativo di Vivaldi, chiarendo il rapporto tra uno sfondo — la storia, il mestiere, le condizioni materiali — e un’innovazione, fra l’abituale e l’inedito.
Una sintesi singolare di storicità e invenzione si trova così nel Concerto per due violette di Sardelli, dal quale si può partire per comprendere meglio il Concerto grosso op. 3 nn. 11 e il Concerto op. 3 n. 10. Come gli altri dell’op. 3, mostrano infatti come Vivaldi letteralmente concepisse la sua musica collocandosi in una sfera armonica, la tonalità, che rappresentava per lui un’intera modalità del pensare, e non solo dell’esprimere affetti attraverso i suoni. L’armonia di impianto definisce per lui lo spazio sonoro che determina i colori dell’orchestrazione e le figure ritmiche della scrittura, il gradiente di virtuosismo richiesto e di conseguenza i rapporti fra la parte dei soli, il cosiddetto “concertino”, e il “tutti”, ovvero le due ripartizioni strumentali del “concerto grosso”, alle quali si può aggiungere il “ripieno” quando il concertino suona insieme al “grosso”. In questo modo avrebbero pensato la loro musica Mozart, Beethoven, Schubert, ma non Bach, che pure alle relazioni delle tonalità avrebbe dedicato studio e attenzione, e neppure Haydn e, dopo di lui, Berlioz o Liszt. Laddove Bach si esercita nell’arte del contrappunto, Vivaldi compensa con la brillantezza espositiva, e laddove gli autori meno centrati sullo spazio sonoro definito dalla tonalità vanno alla ricerca di nuove forme, Vivaldi si lascia trascinare dal materiale che impiega. Si potrebbe quasi applicare al confronto tra Bach e Vivaldi quel che Alfred Brendel ha detto di Beethoven e Schubert: che gli uni richiedono la sapienza dell’architetto, gli altri l’intuito del rabdomante. Del resto la forma, nel concerto grosso, non viene dalla disposizione delle parti all’interno di un organismo coerente, ma dalla distribuzione del materiale fra i gruppi strumentali. Come hanno scritto Marc Pincherle e Christopher Hatch, al tempo di Vivaldi la pratica strumentale prevaleva sulla teoria.
Bach fra l’altro scelse il Concerto Grosso n. 10 dell’op. 3, intitolata da un Vivaldi che voleva affermarsi all’estero L’estro armonico, a testimonianza dell’interesse e della raffinatezza di una composizione che vive di invenzioni timbriche stupefacenti, in particolare nel Larghetto. Mentre il n. 11 insiste sul dialogo fra i due violini solisti nell’affermazione del campo del re minore, nell’Allegro d’apertura, e si calma nel lirismo del secondo Adagio, incorniciato da due movimenti rapidi nei quali si affaccia anche il contrappunto. Il confronto con il Concerto Grosso op. 6 n. 11 di Händel è significativo, perché nonostante il gusto francese che vi fa comparire elementi di danza ha come modello diretto Corelli, con un tono insieme più arcaico e più maestoso, e con una prospettiva per così dire frontale della musica che nella sua bellezza è tuttavia il contrario dell’invenzione atmosferica di Vivaldi.
Il programma è completato dalle sinfonie che aprono due opere vivaldiane: Il Giustino, rappresentato al Teatro Capranica di Roma nel 1724, andato in scena dieci anni dopo al Teatro S. Angelo di Venezia. Più che l’aderenza allo svolgimento dei rispettivi drammi, quel che colpisce è la continuità con lo stile concertistico di Vivaldi, questo nella forza del baricentro armonico, nel contrasto fra le parti lente e veloci, nell’uso del fugato, nella brillantezza strumentale. Come se il pensiero sonoro di Vivaldi rimanesse lo stesso in ogni sua composizione strumentale, e come se in questa forma di identità a se stesso egli trovasse l’occasione per introdurre varianti inaspettate. Più o meno quello che chiamiamo “estro”.
Stefano Catucci
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29 novembre 2022
Elegia, Romanza, Serenata, Suite, sono stati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo nuovo titoli con i quali si indicavano brani che volutamente sfuggivano dalle classificazioni formali della musica per orchestra. La prima di queste classificazioni, naturalmente, è quella della Sinfonia, ma la seconda investe il Poema Sinfonico, che a partire da Liszt aveva assunto caratteri molto specifici. Senza né l’impegno della Sinfonia, né l’adesione ai principi poetici e programmatici del Poema Sinfonico, quelle nominazioni indicavano opere al tempo stesso più leggere e più libere, al punto che gli autori potevano benissimo usarle come occasioni sperimentali per lavorare sul proprio linguaggio attingendo a fonti diverse, per esempio rifacendosi a modalità della musica antica oppure al patrimonio popolare. Čajkovskij e Sibelius scrissero anche Sinfonie, il secondo si dedicò intensamente anche ai Poemi Sinfonici. Janáček ha nel suo catalogo una Sinfonietta, mentre per il resto la sua produzione orchestrale si rivolge al Poema Sinfonico, a Rapsodie come Taras Bulba o alla forma della Danza di derivazione popolare. Wolf-Ferrari è autore di una Sinfonia Brevis, ma senza aprire il capitolo del Concerto solistico — che coinvolgerebbe anche tutti gli altri — si è limitato a Suite e Divertimenti, anticipando una tendenza del Novecento italiano tendente a rifarsi ai modelli del Barocco e del Classicismo.
Proprio perché più libere, e soprattutto esonerate dalla necessità di aderire a una forma o a una poetica, composizioni come Elegie, Romanze, Serenate e Suites lasciano emergere aspetti profondi dell’opera di ciascun artista in quanto presuppongono una minore esigenza di controllo sul materiale. In qualunque opera d’arte, e in qualunque testo, ci sono elementi incontrollati, zone opache paragonabili «alle percezioni che lo sguardo registra senza capire» e che rappresentano altrettante tracce lasciate dietro di sé da un autore. Così ha scritto molto bene Carlo Ginzburg nell’introduzione a una sua raccolta di saggi (Il filo e le tracce, 2006), e così aveva anticipato in uno scritto più lontano nel tempo (Spie. Radici di un paradigma indiziario, 1979) portando l’attenzione sulle analisi di uno storico dell’arte ottocentesco, Giovanni Morelli, il quale aveva risolto annosi problemi di attribuzione di quadri del Rinascimento italiano concentrandosi non sugli aspetti salienti dello stile, ma su ciò che i pittori dipingevano con meno attenzione: la forma dei lobi delle orecchie nei personaggi distanti dal primo piano, quella di uccelli in volo appena segnati sullo sfondo di un cielo, la maniera di dipingere le nuvole e così via. Freud fu molto interessato agli scritti di Morelli, ravvisandovi un’intuizione di quel che lui avrebbe chiamato inconscio. Così le opere apparentemente minori di autori come Čajkovskij, Sibelius, Janáček e Wolf-Ferrari potrebbero essere ascoltate cercando ciò che è specificamente loro proprio nelle tracce di quel che è meno controllato.
Čajkovskij, per esempio, lavorò abbastanza di fretta all’Elegia dedicata a Ivan Vasil’evi Samarin in occasione di una festa per i suoi cinquant’anni di attività come regista teatrale: con Čajkovskij aveva collaborato per il primo allestimento di Evgenij Onegin (1879). Ricevuto l’invito a scrivere alla fine dell’ottobre 1884, la scrisse nel corso di un viaggio seguendo il modello della Serenata per archi op. 48, ma lasciando ancora più spazio all’espressione di emozioni contrastanti, una tensione fra dolcezza e malinconia che si coglie dal rapporto tra le frasi melodiche e l’armonia, ma che a tratti si densifica anche in passaggi ritmici delicati eppure incisivi. Samarin sarebbe morto pochi dopo la sua celebrazione, avvenuta il 28 dicembre 1884. Čajkovskij decise di pubblicare il brano solo nel 1890. A posteriori può sembrare un’opera non tanto di festa quanto di congedo, ma soprattutto quel che colpisce è la concentrazione di gesti musicali che registrano nel modo più immediato possibile un senso di partecipazione emotiva, e che rivelano come questo aspetto sia stato decisivo, per Čajkovskij, anche nelle sue opere maggiori.
La Serenata per archi è un’opera giovanile di Ermanno Wolf-Ferrari. Risale al tempo in cui studiava a Monaco di Baviera con Joseph Rheinberger, e più precisamente al 1892, mentre era ancora incerto se dedicarsi alla musica oppure alla pittura: il padre, August Wolf, era pittore, il doppio cognome dell’autore viene dall’aver fatto proprio, più avanti, anche quello della madre, Emilia Ferrari. È una composizione che già denota talento, benché scritta a soli 16 anni, e che guarda schiettamente a Mozart, così da lasciar intendere anche quanto di questo legame con il classicismo più luminoso sarebbe rimasto anche nelle sue opere successive, nelle quali un’indole romantica è sempre temperata da un bisogno fondamentale di eleganza.
Sibelius compose la sua Romanza nel 1904 in un periodo molto complicato, nel quale amici e parenti avevano cercato di porre un freno al disordine della sua vita spingendolo, fra l’altro, a lasciare Helsinki per trasferirsi in campagna, vicino al lago Tuusula. Bisognava però costruire una casa e per raccogliere fondi niente di meglio che organizzare una serie di concerti, che fra l’altro lo avrebbero tenuto impegnato nel lavoro e più lontano dal suo vizio principale: l’alcohol. La Romanza nacque proprio in queste circostanze, per un concerto che Sibelius stesso diresse nella città di Turku, e che riassume in un tempo eccezionalmente breve tutto il groviglio di emozioni da lui vissute in quel periodo, compresa la felice riconoscenza per la moglie Aino. Si passa così in modo rapidissimo dalla paura alla speranza, dal panico alla serenità, senza bisogno che vi fossero pretesti esterni, paesaggistici o narrativi, per dare a quei sentimenti un’elaborazione, come sarebbe accaduto nelle sue composizioni di maggiore dimensione.
Composta tra il 1890 e il 1891, quando Janáček aveva 36 anni, la Suite n. 3 venne eseguita per intero a Brno solo a ridosso della sua morte, nel 1928. In quel periodo Janáček era molto dedito alla ricerca nel campo della musica popolare, ed è probabilmente da quelle ricerche che egli avrebbe tratto non solo i materiali, ma anche le specifiche modalità linguistiche a cui si sarebbe rifatto anche in seguito. La stesura della Suite n. 3, del resto, è contemporanea di quella dell’opera Počátek románu (L’inizio di un romanzo), tratta da un libro di Gabriela Preissová a sua volta ispirato a un quadro di Jaroslav Vesin e che debuttò, sempre a Brno, nel 1894. Difficile stabilire cosa sia venuto prima, se la Suite n. 3 o l’opera. Di certo i primi due movimenti della Suite n. 3 contengono musica che compare anche in Počátek románu, ma soprattutto è certo il fatto che in entrambi i casi l’uso di danze e canti popolari sia sotto il segno della leggerezza e del divertimento, come se guardare a quella matrice rappresentasse un gesto di sorridente ironia da non sottovalutare nemmeno nel caso delle sue composizioni più impegnate. I titoli dati ai movimenti sono neutri, ma il materiale utilizzato è sempre ben connotato, come avviene per esempio nel caso delle danze della Slesia occidentale, una fonte a cui Janáček aveva già fatto ricorso pochi anni prima nella serie delle Lašské tance: due di queste vengono rielaborate nel terzo e nel quarto movimento della Suite, in particolare Požehnaný (danza n. 2) e Dymák (danza n. 3).
Stefano Catucci
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25 ottobre 2022
Non deve sorprendere che il genere “pastorale” — in musica come in letteratura, nella pittura come nel teatro — sia un prodotto della cultura urbana. È dalle città, infatti, che si immagina di evadere andando in cerca di un rapporto più diretto con la natura. D’altra parte è in rapporto all’evasione dal presente che, volendo sfuggire dal rumore della storia e della politica, si costruisce un mondo perduto e idealizzato, inaccessibile se non attraverso l’idillio di una finzione pastorale. Così già Ovidio, pensando alla Roma del suo tempo, raccontava di un’età dell’oro dove il senso della giustizia non aveva bisogno di essere garantito né da leggi, né da armi, non c’erano ancora mura e fossati a proteggere le città e la terra donava spontaneamente i suoi frutti senza necessità di coltivarla, mentre un’eterna primavera e dolci venti accarezzavano i fiori. Con il Cristianesimo sarebbe entrata nell’immagine dell’idillio proprio la figura del pastore, quasi sempre presente anche nella pittura di paesaggio, e con il Cinquecento il genere “pastorale” si sarebbe definitivamente imposto come espressione di un’alternativa alla vita di città, conoscendo una serie di varianti che hanno seguito passo passo i mutamenti di sensibilità delle varie epoche: il Barocco che ancora legava il pastoralismo ai momenti della storia sacra, in particolare al Natale; il Romanticismo che lo riportava piuttosto a una dimensione soggettiva; il mondo industriale che vi ha trovato una forma di resistenza nei confronti della modernità.
Tre musiche pastorali riflettono, a livelli diversi, queste dinamiche. La prima è una romanza senza parole che Stravinskij dedicò a Nadia, la figlia del suo maestro Nikolaj Rimskij-Korsakov, quando aveva 25 anni. Concepita per voce e pianoforte, venne più tardi leggermente ampliata e arrangiata dall’autore sia per violino e pianoforte, sia per piccoli ensembles strumentali, in questo caso ponendo in primo piano i fiati, del resto tipici delle ambientazioni di genere anche per la capacità di evocare i suoni della natura, a cominciare dal canto degli uccelli. Fu infine da Leopold Stokowski a realizzarne una versione per orchestra da camera nella quale ai fiati, in funzione solistica, si aggiunge anche il violino. Stravinskij, che in quel periodo aveva creato un’atmosfera pastorale in Le Faune et la bergère, suite per voce e orchestra nella quale sono sensibili i richiami alla musica di Debussy, gioca sull’ambientazione campestre tramite un andamento di danza increspato da lievi dissonanze e variazioni di ritmo. La melodia si adegua a questo gioco disimpegnato e solare seguendo a volte, con i suoi abbellimenti, le evoluzioni della base ritmica.
Anche l’orchestrazione della Pastorale d’été di Arthur Honegger mette in risalto gli strumenti a fiato. Giovanile come la Pastorale di Stravinskij — l’autore aveva 28 anni —, scritta durante un periodo di vacanza nelle Alpi svizzere, è basata su un tema ricorrente annunciato dal corno, dopo un’introduzione orchestrale, e poi ripreso variamente dagli altri strumenti anche nella parte finale. Se si eccettua il passaggio centrale più animato (“vivo e gaio”, indica Honegger), che si apre a delicati ritmi di danza tramite gli interventi del clarinetto e del fagotto, la Pastorale d’été mantiene un andamento morbido e cullante, quasi si trattasse di un sogno a occhi aperti che si svolge a partire da una poesia di Rimbaud (“J’ai embrassé l’aube d’été”) e che è ancora lungi dal brusco risveglio dovuto, nella musica di Honegger, all’invadenza del mondo moderno, urbano e industriale. Tre anni dopo, la locomotiva a vapore da lui evocata nel movimento sinfonico Pacific 231, segnerà una presa di distanza radicale dal clima idilliaco dell’evasione pastorale.
L’ultimo dei tre brani non è solo cronologicamente il primo, ma rappresenta l’atto fondativo del genere pastorale moderno, inteso precisamente come ricerca di una dimensione di vita diversa da quella cittadina. “Piacevoli sentimenti che si destano nell’uomo all’arrivo in campagna” è il titolo aggiunto al primo movimento, ed è significativo che tutto quanto la musica è chiamata a raccontare dopo — “Scena al ruscello”, “Allegra riunione di campagnoli”, persino la “Tempesta” e il ringraziamento benevolente alla divinità per la sua fine — assegnino alla musica la posizione di un osservatore esterno, o meglio di uno spettatore che sa di trovarsi in quei luoghi provvisoriamente, senza davvero viverli se nella forma del trasporto emotivo. “Più espressione di sentimenti che pittura”, notava Beethoven prendendo le distanze dalla musica “illustrativa” in voga nel suo tempo. Ci sono certo nella Sinfonia n. 6 elementi innegabilmente descrittivi: per esempio l’acqua del ruscello nel secondo movimento, il temporale nel quarto, e poi in diverse occasioni il canto degli uccelli (Beethoven annotò alcune raccomandazioni per il copista: «Scriva usignolo, quaglia, cucù nel primo flauto, nel primo oboe, nel primo e secondo clarinetto esattamente com’è qui nella partitura»). Questi elementi assicurano alla Sinfonia n. 6 una comprensibilità e un fascino immediati, ma in realtà nascondono la complessità di un percorso più problematico e profondo che mette in scena il conflitto tra le lotte di una vita attiva e l’ideale di una superiore tranquillità. Beethoven non guarda alla riproduzione esteriore di effetti pastorali, ma cerca un nuovo livello espressivo, complementare e dialettico rispetto a quello più drammatico di opere come la Sinfonia n. 5. Buon conoscitore di Rousseau, lettore attento di alcuni dei primi scritti di Immanuel Kant, Beethoven assume infatti nella Sinfonia n. 6 un atteggiamento che può essere definito “filosofico” almeno quanto quello della Quinta può essere definito “epico”. «Se nella disposizione del mondo risaltano l'ordine e la bellezza», annota Beethoven nel 1816 mentre legge un’opera giovanile di Kant, la Storia generale della natura e teoria del cielo, «allora c'è un Dio»: un Dio che per Beethoven non è al di fuori della bellezza che lo rivela e da cui l’osservatore della natura si lascia conquistare.
Stefano Catucci
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07 giugno 2022
C’è una fotografia che ritrae Rachmaninov nella campagna della famiglia della moglie, Natalia Satina, a Ivanokva, poco meno di 500 km. a sud di Mosca. Uscendo dalla villa patrizia dove risiedeva, Rachmaninov si rifugiava in una più piccola abitazione di legno all’interno della proprietà. L’anno dovrebbe essere il 1909, quello del suo primo viaggio negli Stati Uniti e di un’intensa attività creativa che lo vide scrivere, nell’arco di pochi mesi, il poema sinfonico L’isola dei morti, il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 30 nonché la Liturgia di S. Giovanni Crisostomo, terminata all’inizio del 1910. Se però L’isola dei morti risentì dell’effetto della Sinfonia Fantastica di Berlioz, di cui ascoltò a New York le prove dirette da Gustav Mahler, il Concerto n. 3 fu concepito integralmente nella quiete di Ivanokva, dove Rachmaninov continuò a passare l’estate fino al 1917, quando lasciò la Russia senza avere ottenuto un visto, fuggendo attraverso il confine con la Finlandia.
Benché sia oggi uno dei suoi lavori più popolari, per lungo tempo il Concerto n. 3 non ha avuto molta fortuna e venne eseguito solo con l’autore al pianoforte. Rachmaninov aveva tentato di assicurargli una diffusione internazionale dedicandolo a Josef Hofmann, pianista tra i più celebri di allora, origine polacca e genio multiforme a cui si deve, fra l’altro, l’invenzione del tergicristallo e di un sistema di ammortizzatori per le automobili, nonché di perfezionamenti tecnici per il pianoforte tuttora in uso. Hofmann, tuttavia, ebbe parole severe per questo Concerto e non lo eseguì mai: «è più una fantasia che un concerto, non c’è abbastanza forma, solo una melodia breve che si interrompe continuamente per lasciare spazio a un virtuosismo eccessivo». Il giudizio è più che ingeneroso, visto che oltretutto il n. 3 è il più strutturato fra i concerti di Rachmaninov. La sua reticenza, ad ogni modo, impedì il decollo internazionale che l’autore aveva immaginato, e che pensava quell’opera meritasse. Di fatto ci fu bisogno di attendere una nuova generazione di pianisti, il cui esempio-guida fu Vladimir Horowitz, perché il Concerto n. 3 avviandolo verso la fama di cui gode attualmente. «Senza falsa modestia», dichiarò Horowitz, «sono stato io a riportare alla vita questo Concerto». L’affermazione non è esagerata come può sembrare, dato che dopo Horowitz, e anche dopo le modifiche apportate da Rachmaninov insieme a lui, il Concerto n. 3 non ha più smesso di fare proseliti fra i pianisti e di riscuotere l’entusiasmo del pubblico.
Le prime esecuzioni e la prima registrazione di Horowitz sono però del 1930: più di vent’anni separano quindi la stesura dalla definitiva affermazione, e se in quei vent’anni la musica aveva conosciuto a sua volta profonde rivoluzioni, il tempo passato non sembrava aver lasciato scorie su una partitura che appariva antica e moderna, piena di uno splendore e di un romanticismo ormai apparentemente fuori dalla storia, eppure densa e capace di far presa come sanno farlo solo le opere che superano la storia, perché ne trasfigurano i tormenti e le aspirazioni.
Nel 1930 Horowitz aveva 27 anni, Rachmaninov 57. Si incontrarono nella sede di Steinway a New York, il giovane pianista suonò emozionatissimo e ascoltò ogni osservazione di quello che per lui era un idolo, giungendo a concordare sei tagli — uno nel primo, tre nel secondo, due nel terzo movimento — che in seguito Horowitz in parte ripristinò, giungendo nella sua ultima incisione del 1978 a mantenerne uno solo, nel movimento di apertura.
Troppo difficile da eseguire? Così aveva reagito Hofmann. Troppo ripetitivo? Così doveva aver pensato anche Rachmaninov, con un pragmatismo che andava oltre le convinzioni artistiche. Dopo averlo fatto rinascere, però, Horowitz l’ha lentamente, pazientemente restaurato, fino a dargli la forma che oggi si ascolta più di frequente.
Il Concerto n. 3 era stato pensato comunque da Rachmaninov come la novità da presentare negli Stati Uniti in occasione della tournée iniziata proprio alla fine del 1909. Partì da Mosca il 2 ottobre, dieci giorni prima aveva ultimato il manoscritto, sul quale aveva cominciato a lavorare a giugno, e che studiò su una tastiera portatile durante il viaggio in nave. Lo eseguì in due repliche con la New York Symphony Orchestra diretta da Walter Damrosch e poi una terza con la guida di Gustav Mahler. Di quest’ultima esecuzione rimase lui stesso talmente impressionato, anche per la rapidità con la quale Mahler si era impadronito di una partitura molto impegnativa anche per l’orchestra, che in seguito il paragone con altri direttori d’orchestra lo lasciò deluso, specialmente al suo ritorno in Russia. La struttura è molto più elaborata rispetto al Concerto n. 2. L’apertura orchestrale è una breve scansione ritmica che definisce lo spazio e il tempo entro cui si muoverà, subito dopo, il tema principale affidato al pianoforte. Questo tema lungo e divagante, basato su due elementi che si completano, tornerà poi ad affacciarsi anche nel secondo e nel terzo movimento, funzionando come un centro di gravitazione melodico. A una domanda di un’intervistatore americano, che gli chiedeva se quel tema avesse un’origine ecclesiastica o popolare, Rachmaninov rispose negando ogni influenza diretta: «si è scritto da solo», disse, «pensavo solo al suono, volevo che il pianoforte cantasse la melodia come lo avrebbe fatto un cantante e trovare un accompagnamento orchestrale che non lo soffocasse». Somiglianze con alcuni canti popolari — tanto russi quanto ucraini, fra l’altro — sono stati più volte richiamati dalla critica, ma ciò non toglie che l’originalità, la dolcezza e insieme la plasticità di una melodia che sa svilupparsi in forme di espressività tanto diversa lungo il Concerto, è caratteristico dell’ispirazione di Rachmaninov, abbia egli o no fatto ricorso a qualche memoria musicale radicata nella sua esperienza di ascolto.
Come vuole la concezione classica della forma, c’è anche un secondo tema che, per contrasto, non è immediatamente pronunciato dal pianoforte, bensì dai fiati. Il ritmo varia leggermente, gli archi lo scandiscono, il pianoforte riprende la guida della tessitura musicale e accompagna il primo movimento verso la massima tensione dinamica ed espressiva, riservandosi anche lo spazio di un’ampia cadenza, della quale Rachmaninov scrisse anche una versione più breve.
L’Intermezzo è più di ponte che conduce al finale. L’atmosfera è scura, piena di inquietudine, l’orchestra espone il tema principale e il pianoforte subentra iniziando con una dissonanza la cui crudezza si scioglie solo via via, poco prima che ricompaia la melodia di base del primo movimento. Rachmaninov costruisce qui una pagina di grande mobilità armonica che corrisponde a un tono introspettivo nel quale non mancano riferimenti al passato, per esempio al ritmo del valzer. È poi sempre il pianoforte a trasportare di getto verso il movimento di chiusura, nel quale cantabilità e incisività ritmica si alternano e si intrecciano come in una strenua lotta. Il profilo dei contrasti si dilata, il pianoforte trova momenti di scrittura percussiva fino ad allora inauditi, la ricomparsa del tema iniziale del Concerto sembra portare non alla pacificazione, ma all’inizio, come se gli opposti della speranza e della disperazione, dello sguardo rivolto al futuro e del momento tragico che gli fa da contrappeso, non fossero destinati a una risoluzione ma fossero portati sempre a ripetersi, a dover essere riformulati e riaffrontati da capo in ogni tempo e a ogni latitudine. Forse anche per questo il finale del Concerto n. 3, subito dopo aver raggiunti il suo apice chiude con una coda irriverente, ironica, quasi che Rachmaninov avesse voluto congedare con un sorriso saggio e comprensivo l’impresa inesauribile che spetta all’essere umano quando si confronta con i problemi profondi dell’esistenza.
Le Danze slave rappresentano il primo grande successo internazionale di Dvořák, giunto quando l’autore aveva quarant’anni e spinte anche dal sostegno editoriale di Johannes Brahms. Nate per il pianoforte, orchestrate dal compositore successivamente, divennero rapidamente un modello del rapporto fra la nuova musica “nazionale”, nel senso generico di ciò che era nato fuori dalla grande tradizione accademica di area tedesca, e il patrimonio popolare. Proprio come Brahms, Dvořák reinventa lo stile della musica popolare senza ricorrere a citazioni di materiale preesistente, ma cercando il più possibile di coglierne lo spirito ovvero, in termini strettamente musicali, l’articolazione del fraseggio melodico, la ritmica e l’armonia. La vivacità delle Danze slave è ciò che ne fa ancora oggi un perno del repertorio concertistico. Benché presentino differenze molto marcate tra un brano e l’altro, l’unità della loro concezione si impone immediatamente, così da dare al ciclo la forma di un percorso che si inoltra non tanto nel campo delle ricerche etnomusicologiche, quanto in quello delle possibilità aperte al compositore, molto più ampie di quelle apprese nel cammino dei propri studi.
Stefano Catucci
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17 maggio 2022
Tra la metà del XIX e l’inizio del XX secolo la produzione di falsi musicali ha conosciuto una significativa diffusione favorita da un lato dallo sviluppo della cultura storica, dall’altro dall’assenza degli strumenti che avrebbero permesso, in seguito, di esaminare le partiture e soprattutto le fonti con l’occhio della filologia: analisi dei documenti d’archivio, degli autografi, della qualità della carta e così via. Fu sempre in quel periodo che si formò anche la categoria del “repertorio”, riducendo il privilegio accordato, fino ad allora, alla musica nuova, e che la celebrazione delle grandi figure del passato attraverso i monumenti si estese anche ai compositori innalzando su piedistalli, fra i primi, il lontano Bach e il più vicino Beethoven. Nel riproporre la musica di epoche trascorse vennero prese alcune libertà, dal completamento delle opere lasciate incompiute all’invenzione di brani scritti “nello stile di” e presentati come scoperte d’archivio. Falsi, in realtà, erano stati prodotti anche prima: già durante il Barocco gli editori musicali avevano agito a volte con disinvoltura mescolando le carte degli autori di quell’epoca, mentre è noto il caso dell’austriaco Barone von Walssegg, il quale commissionava musica rimanendo anonimo per poi poterla spacciare come propria: fu lui a inquietare Mozart chiedendogli un Requiem tramite un emissario mascherato che la leggenda vuole sia stato visto dal compositore come un presagio della sua stessa morte.
Dalla metà dell’Ottocento, però, questo fenomeno si intrecciò in modo più stretto con le vicende della ricerca storica. E poiché non lo si può paragonare alla falsificazione di pitture o sculture, dato che è privo dell’interesse speculativo a farne commercio per ricavarne guadagni illeciti, spesso ha finito per essere un esercizio di stile, o al limite un gioco, pensato più per rendere omaggio al passato o per dare prova di una speciale abilità che non per una volontà di ingannare.
Volendo individuare una data-limite dei fenomeni di falsificazione musicale, un momento cioè a partire dal quale non sarebbe più stato possibile compiere operazioni di questo genere senza dichiararle in modo esplicito, si può concentrare l’attenzione sugli anni che seguirono immediatamente la Prima Guerra Mondiale, per esempio sul balletto Les femmes de bonne humeur, che il compositore italiano Vincenzo Tommasini realizzò su musica di Domenico Scarlatti, e su Pulcinella di Igor Stravinskij, riscrittura di musiche del Settecento napoletano in un primo tempo attribuite in blocco a Pergolesi. Rendere manifesto l’intervento di un compositore su opere del passato divenne allora una sorta di obbligo etico ed estetico, dato che per un verso si rischiava di essere più facilmente scoperti come autori di falsi, mentre per un altro la combinazione di antico e moderno diventava un valore artistico nuovo. L’esempio estremo di questo trattamento esplicito, esemplare nel suo rigore, è Rendering, il lavoro che Luciano Berio ha composto partendo da una sinfonia appena abbozzata da Schubert: qui, facendo proprie le moderne teorie del restauro che fanno capo a Cesare Brandi, Berio ha infatti voluto evidenziare il “cemento musicale” con il quale ha colmato le lacune dell’originale rendendo riconoscibile il dialogo fra il linguaggio classico e quello contemporaneo.
L’operazione di Henri Casadesus sulla musica di Johann Christian Bach si colloca oltre quella data limite, la si può dunque considerare fuori tempo massimo, ma d’altra parte mostra una tale abbondanza di elementi tardoromantici, specie nell’armonia, che la si può vedere anche come un esempio esplicito di dialogo fra l’antico e il moderno. Ciò non toglie che Casadesus, insieme ai fratelli Francis e Marius, avesse più volte falsificato musica del passato per la Societé des Instruments anciens della quale facevano parte, e che a volte avesse persino creato dei paradossi storici, come un falso concerto di Boccherini scritto sulla falsariga di uno di Mozart, da lui presentato sostenendo fosse la prova che Mozart si era ispirato a Boccherini. Nel 1947, secondo la ricostruzione che lui stesso ha offerto della vicenda, Henri Casadesus propose il Concerto di Johann Christian Bach alla vedova dell’editore Francis Salabert perché lo pubblicasse in memoria del marito. Nella prefazione alla partitura dichiarava di averlo ricevuto nel 1916 dalle mani di Camille Saint-Saëns e di avere prove del fatto che fosse stato eseguito nel 1789 ad Hannover con la parte solistica affidata a un celebre virtuoso della viola da gamba, Carl Friedrich Abel. Come nel caso dei suoi falsi Händel, un orecchio attento è tuttavia in grado di cogliere subito la differenza, tanto che l’unico scopo durevole di questo esercizio di bravura compositiva rimane quello di aver contribuito a estendere il repertorio solistico della viola con un brano nuovo calato nell’atmosfera di un passato idealizzato.
Che Edvard Grieg sia stato il padre della moderna musica norvegese è fuor di dubbio, ma ridurre il suo apporto a una dimensione nazionale rischia anche di ridimensionarne l’opera riducendola a una variante locale del tardo romanticismo. Alcune sue opere figurano stabilmente nei programmi dei concerti, dalle musiche di scena per il Peer Gynt di Henrik Ibsen, raccolte in due suites, al Concerto per pianoforte e orchestra op. 16 fino alla versione per archi della suite Dai tempi di Holberg. Le composizioni che gli diedero maggior fama in vita, i Pezzi Lirici per pianoforte, sono invece eseguite raramente, come pure lo sono fuori dalla Norvegia i suoi canti, che soffrono dell’ostacolo linguistico affrontato solo da pochi interpreti. Il risultato è che Grieg viene visto come un autore collocato ai margini della tradizione austro-tedesca e la cui originalità viene schiacciata sull’uso di melodie e colori popolari. L’idea che egli abbia creato una forma di musica paesaggistica è stata spesso invocata per riscattare il valore della sua musica, ma anche in questo caso il riferimento a fiordi, laghi e montagne innevate è servito più a rendere popolare che non a comprendere la sua opera. Solo negli ultimi vent’anni, anche grazie a una rivisitazione critica della nozione del paesaggio, questa componente della musica di Grieg è stata considerata nella sua complessità, trovando in essa motivi non solo territoriali ma anche etici, politici, esistenziali. Il ricorso al colore paesaggistico, da questo punto di vista, è stato visto come l’elemento fondante di una poetica ispirata all’ecologia della terra e della mente, il cui secondo attrattore gravitazionale è rappresentato dal riferimento alla storia antica, a “tempi” nei quali Grieg, senza nostalgia, trovava un esempio di equilibrio fra l’accordo con la natura e lo sviluppo della personalità individuale.
Le Due melodie op. 53 per orchestra d’archi, pubblicate nel 1890, nascono da canti composti da Grieg nei due decenni precedenti, rispettivamente su testi dei poeti norvegesi Aasmund Olavsson Vinje e Bjørnstjerne Bjørnson. In entrambi i casi l’elemento paesaggistico e il richiamo al patrimonio popolare sono trasfigurati in una musica visionaria e sognante. Grieg confessò di aver colto l’occasione per correggere un errore di interpretazione nel quale era incorso musicando la poesia Fyremål di Vinje, termine composto e difficilmente traducibile che indica grosso modo il punto verso cui tende un fascio luminoso, per esempio quello di un faro. Inizialmente Grieg aveva pensato a un testo la cui energia era legata all’espressione di sentimenti personali, privati, «diretti a un amico o addirittura alla moglie del poeta». Solo dopo aver composto la musica, che ad ogni modo ha un andamento vivace e vigoroso, si rese conto che era un appello ai norvegesi per la causa nazionale e così, al momento di prepararne la versione orchestrale, ne cambiò il titolo in Norsk, cioè semplicemente Norvegese. Il secondo canto, in origine Det første møte (Il primo incontro) su versi di Bjørnson, ha un’attitudine più lirica e intimista nell’espressione di affetti che, malgrado la base popolareggiante dell’ispirazione, non hanno una connotazione nazionale aspirando piuttosto a una dimensione pura e universale della musica.
Anche la suite Dai tempi di Holberg era nata per una destinazione diversa da quella orchestrale, essendo stata concepita per il pianoforte in occasione del bicentenario della nascita di Ludvig Holberg, celebrato nel 1884 per ricordare quello che viene considerato come il primo autore di un teatro specificamente nordico, scritto in lingua danese nonostante Holberg fosse nato in Norvegia. Qui Grieg usa le forme di danze antiche, le stesse che facevano abitualmente parte delle suites strumentali di età barocca, dando corso alla sua invenzione melodica e timbrica come sentendosi liberato dalla necessità di essere “moderno”, al passo con il gusto dei tempi: un altro aspetto, questo, che impedendo di collocare l’opera di Grieg nel percorso evolutivo per molto tempo dominante nelle narrazioni della storia della musica, ha ostacolato una comprensione adeguata dello spazio sonoro da lui creato.
Il concerto si apre con la prima esecuzione assoluta di Credo – Music for Orchestra VII, composizione di Jay Schwartz vincitrice del Mario Merz Prize. Come Shwartz ha scritto, «il titolo è un gioco di parole che rappresenta il lento svelarsi attraverso i glissandi della progressione di un accordo spettrale lungo l’intero brano: E-C (Do) D- (Re)». Il termine Credo, perciò, non ha una risonanza religiosa ma artistica, allude alla credibilità di un fenomeno acustico paragonabile all’illusione ottica e basato sull’uso del glissando: l’illusione, spiega ancora Schwartz, è quella «di un’ascensione costante dell’intonazione», unita alla «sensazione di non poter definire con assoluta certezza che cosa stia effettivamente salendo». Credo è perciò una sorta di «professione di fede musicale» che vuole la visione dell’artista e quella del pubblico in un percorso di apertura e di condivisione.
12 aprile 2022
Il 13 marzo 1845, a Lipsia, il primo violino dell’Orchestra del Gewandhaus, Ferdinand David tenne a battesimo la prima esecuzione del Concerto per violino op. 64 di Felix Mendelssohn. Da anni David attendeva che il compositore ne scrivesse uno per lui e dai loro scambi epistolari emerge un’intesa che andava oltre il fatto puramente musicale. Entrambi erano nati ad Amburgo: David aveva tre anni meno di Mendelssohn e perciò non aveva potuto conoscerlo già da bambino, dato che la famiglia di quest’ultimo si era trasferita a Berlino quando il futuro compositore aveva solo due anni, nel 1811. Provenivano però non solo dalla stessa città, ma dallo stesso ambiente ebraico costretto ad assimilarsi tramite la conversione al Protestantesimo. Si incontrarono per la prima volta proprio a Lipsia nel 1835, quando Mendelssohn accettò la direzione dell’Orchestra del Gewandhaus e David vi fu subito introdotto. Di lì nacque un’amicizia che Mendelssohn stesso propose di suggellare con un nuovo Concerto via via rinviato nel tempo sia per i molti impegni che lo incalzavano, sia per una certa ritrosia nell’affrontare il compito. Mendelssohn aveva già scritto un Concerto per violino nel 1822, quando aveva 13 anni, e in quel caso si era rifatto al modello della musica di Bach. Accantonato quell’esempio, dove avrebbe potuto trovare ispirazione? Un’idea, per lui, era chiara: doveva abbandonare la tonalità di quel primo e ormai lontano lavoro, re minore, e scegliere una sonorità diversa, quella del mi minore. Al di là del cambiamento del campo armonico rimaneva tuttavia il problema di come affrontare quel genere di concerto trovando una chiave espressiva personale. Questi due aspetti, sonorità ed espressione, possono apparire come una costruzione a posteriori della critica, un esercizio di interpretazione persino eccessivo rispetto al modo in cui procede il lavoro di un artista. Nel caso di Mendelssohn, però, rappresentavano una preoccupazione reale e, in molti casi, il vero nucleo della sua ricerca estetica.
Volendo schematizzare, scorrendo le lettere che il compositore scrisse affrontando simili questioni emerge il quadro di un autore che traeva ispirazione da fonti diverse. Dalla musica di altri, com’era accaduto nel caso di Bach o nel ricorso a temi della tradizione tedesca. Dall’osservazione dei paesaggi naturali, storici o sociali, come aveva fatto nel corso dei suoi viaggi in Scozia e in Italia. Dalla pittura e dalla letteratura, cosa che traspare non solo dalle Ouvertures direttamente in rapporto con opere di autori come Shakespeare, Goethe, Victor Hugo, ma anche dall’impressione lasciata in lui dai grandi maestri italiani, per esempio da Tiziano, come scrisse nel 1830 da Venezia alla zia Henriette von Pereira-Arnstein: «quelli di Tiziano sono quadri davanti ai quali si dimenticano l'ambiente circostante, i propri pensieri e se stessi, il loro oggetto non si guarda, ma si vive».
L’esperienza vissuta, la vitalità: ecco un motivo che Mendelssohn riprendeva da questo genere di ispirazione e che per lui si fondeva con il senso del colore, in questo seguendo da vicino le osservazioni di Goethe sull’argomento. In musica la sensibilità per il colore si traduceva anzitutto nella definizione di un campo armonico e di un suono che corrispondessero a uno stato dell’ispirazione: come il rosso in Tiziano, un re minore o un mi minore erano per Mendelssohn precise tonalità dell’intuizione musicale non trasponibili in altre zone armoniche se non al prezzo di cambiare profondamente l’identità di una composizione. Ancora un’altra fonte di ispirazione erano per lui le rovine, coerentemente con tutta la poetica romantica su questo genere di reperti nei quali la natura si riappropria di ciò che è stato fatto dall’uomo. Tutte queste risorse, però, erano idealizzate e trasformate in una materia originale il cui principio era «creare a partire da se stessi». Musica esistente, natura, paesaggi sociali, rovine, letteratura, pittura, non erano dunque per Mendelssohn oggetti di imitazione, ma gradini da salire per raggiungere la vetta della creazione artistica: a questo livello, come scrisse in un’altra lettera del 1844, «non c’è più bisogno di tenere in mente le connessioni originarie» perché tutto è stato sublimato in una forma nuova.
Il Concerto per violino, alla cui prima esecuzione Mendelssohn non assistette perché malato (ebbe modo di ascoltarlo solo due anni dopo nell’esecuzione di Joseph Joachim), fonde in un insieme che appare spontaneo tutti questi elementi di riflessione, come del resto avviene nella maggior parte della sua produzione. Le condizioni di serenità e di raccoglimento che Mendelssohn invocava come presupposti necessari per la creazione, rappresentavano il momento in cui le diverse fonti di ispirazione trovavano il loro punto di incontro in un flusso di idee che non permetteva più di riconoscere una provenienza, rendendo superflua la ricostruzione delle «connessioni originarie». Nei tre movimenti del Concerto per violino op. 64 la musica di Mendelssohn si apre a una spazialità perfettamente definita dal rapporto fra il solista, l’insieme dell’orchestra e le singole voci che emergono da quest’ultima. Il violino è la guida discorsiva e cantabile dell’intero brano, ma la tecnica combinatoria di Mendelssohn permette un montaggio di elementi che si potrebbe descrivere in termini cinematografici: primo piano, totale, controcampo, dissolvenza e così via. Basti notare come nel finale una nuova melodia del violino intervenga durante la sezione di sviluppo per ricomparire negli archi come elemento secondario di un contrappunto basato sul tema principale e poi, nella ripresa, acquisti nuovo rilievo presentandosi come una vera protagonista, inaspettata se si considera la forza del motivo che apre il Concerto.
Il 19 marzo 1894 Johannes Brahms fece dono all’amico Max Kalbeck di uno spartito musicale sulla cui sovracoperta era scritto Piccola Serenata. Aprendolo, una seconda copertina rivelava il vero contenuto del dono: Mendelssohn. «Visto?», osservò divertito Brahms, «l’interno non è così leggero come sembra dall’involucro». Commentando questo episodio Richard Heuberger, che lo ha riportato nel suo volume di Ricordi di Johannes Brahms, allude al fatto che l’ironia di questi nascondeva sempre qualcosa di serio, quasi fosse essa stessa la sovracoperta di un altro messaggio. Immaginiamo allora che Brahms abbia voluto non solo fare uno scherzo a un amico, ma dire qualcosa su di sé attraverso il gioco delle due intestazioni: Piccola Serenata e Mendelssohn. L’interno, la musica di Mendelssohn, non è “così leggera come sembra” perché anche laddove si esprime con la massima fluidità e trasparenza è sempre frutto di un lavoro che trasforma, idealizzandola, la molteplicità di idee e di materiali su cui lavora. Ma d’altra parte nemmeno la Serenata è “così leggera come sembra” perché, dentro, nasconde “Mendelssohn”, cioè appunto quel lavoro di intarsio, di rifinitura e quella ricerca di equilibrio senza cui nessuna vera leggerezza è possibile.
Se si pensa alle due Serenate per archi che Brahms scrisse quando ancora non aveva trent’anni, si trova materia per giustificare questa fantasia. La prima, in re maggiore op. 11, è in questo senso eloquente. La sua leggerezza e la sua eleganza sono il frutto di un lavoro di affinamento estremamente sottile, e d’altra parte essa rappresenta il primo passo verso l’elaborazione di quel linguaggio sinfonico a cui Brahms avrebbe dato pieno spazio solo molto più avanti, arrivandoci per sperimentazioni successive. La prima versione di questa Serenata prevedeva quartetto d’archi e strumenti a fiato, seguendo un’eredità settecentesca: flauto, due clarinetti, corno, fagotto e due clarinetti. Un’esecuzione privata con questo organico, nel 1859, convinse Brahms a rendere da un lato l’orchestrazione più trasparente, rinunciando ai fiati, dall’altro più densa la materia musicale, mantenendo anche nell’orchestra i rapporti della scrittura cameristica. Il risultato è un brano volutamente “da intrattenimento”, con alternanza di elementi cantabili, danzanti e popolareschi, ma che rispetta un’architettura rigorosa e trova un mirabile punto di bilanciamento fra classicità e romanticismo, cura del dettaglio e scorrevolezza dell’insieme. Un lavoro di eccezionale freschezza e ingegnosità musicale che, malgrado risalga ai suoi primissimi passi in ambito orchestrale, sembra presentarsi con una sovracoperta finta, su cui è scritto semplicemente Serenata, e una copertina vera, all’interno, nella quale si legge Brahms: non un Brahms giovanile, esistante, immaturo, ma il Brahms di sempre, un costruttore geniale la cui musica, anche quando è leggera, non è mai veramente “così leggera come sembra”.
22 marzo 2022
«Sono convinto che l’eccellenza di un artista dipenda interamente dalla finezza della percezione e che questo sia la sola cosa che un maestro o una scuola possono insegnare. Perciò, mentre il talento e l’invenzione sono ciò che distingue un individuo dall’altro, la differenza di una scuola dall’altra sta tutta nella sensibilità della percezione». Così scriveva John Ruskin nel 1857, ovvero quattro anni dopo aver pubblicato il terzo e ultimo volume di Le pietre di Venezia, opera di storia, ma soprattutto di sguardo e di analisi che egli arricchì con suoi disegni e dagherrotipi, proprio come esplorò lo spazio della “sua” Venezia riproducendone gli scorci all’acquerello. Affinare la percezione, secondo Ruskin, significa d’altra parte acuire la sensibilità per i dettagli, saperli ricondurre all’ordine dell’insieme che li contiene e sviluppare una forma di familiarità persino fisica con ciò che l’arte richiede. «C’è una perfezione dell’azione dei muscoli», osserva, che va associata con la sensibilità più raffinata, «come avviene nelle dita di un musicista o di un pittore, i muscoli dei quali sono guidati da una finissima reattività per la sensazione della corda o del pennello».
Difficile separare l’impressione che ci lascia la musica di Vivaldi da questa immagine del rapporto fisico con ciò che essa può fare, ovvero dalla realtà di una sfera emotiva che reagisce a una serie di parametri mai astratti: gli strumenti scelti, l’armonia, il ritmo, la stessa cantabilità hanno una relazione diretta con il corpo del musicista e — verrebbe da aggiungere — anche con “le pietre di Venezia”, cioè con quei ricchissimi motivi ornamentali che spesso sono ordinati in serie ripetitive e che Ruskin ha raccontato come nessun altro. Gian Francesco Malipiero aveva osservato qualcosa di simile nel suo libro su Vivaldi del 1958, quando da veneziano a veneziano aveva provato a individuare la sorgente della sua musica: «il Prete Rosso lo immaginiamo con l’orecchio contro il violino per meglio ascoltarsi, per la gioia di vibrare col suo istrumento». La lezione che Vivaldi diede non solo alle sue allieve del Pio Ospedale della Pietà, ma anche a tutta l’Europa del suo tempo fu proprio quella del piacere per la vibrazione della musica, non importa con quale strumento fosse eseguita. Il rispetto delle regole e delle forme veniva sfilava per lui in secondo piano, così come del tutto assente doveva essere per lui la preoccupazione di cadere nel rischio di ripetersi: perché dovrebbe averne chi ha scoperto una fonte di piacere potenzialmente inesauribile?
Anche l’esaltazione del virtuosismo strumentale è legata alla ricerca del piacere fisico del far musica prima ancora che a un’esigenza di spettacolo, tanto che per gli esecutori suonare Vivaldi è al tempo stesso un impegno e una gioia. Il Concerto in fa maggiore RV 551, datato intorno al 1720, è il solo nella sua vasta produzione ad assegnare a tre violini solisti un ruolo paritario. Quello per oboe in re minore RV 454 è uno dei 14 che Vivaldi dedicò a questo strumento — ai quali andrebbe aggiunta la dozzina di concerti nei quali l’oboe figura come solista accanto ad altri strumenti o che derivano da versioni originali per fagotto — mettendone in luce tanto il lato cantabile quanto l’agilità.
Quello per due violini e due violoncelli, uno dei tesori vivaldiani conservati presso la Biblioteca Nazionale di Torino, gioca sull’imitazione contrappuntistica fra gli strumenti ora trattati fra coppie omogenee, ora mescolando i loro diversi timbri.
All’inizio del Settecento l’oboe, cioè il “legno alto” secondo la discendenza della parola dal francese hautbois, aveva già conosciuto la tappa più importante della sua evoluzione tecnica prima del consolidamento di un nuovo sistema di chiavi introdotto nel secolo successivo. Le novità meccaniche di uno strumento incoraggiano la sperimentazione dei compositori, e d’altra parte senza l’apporto di questi ultimi la nuova tecnologia si limita a migliorare l’esistente, ma non sfrutta in pieno le potenzialità musicali dell’innovazione. Fra gli autori italiani che, accanto a Vivaldi, si impegnarono allora sull’oboe spicca il nome di Tomaso Albinoni, al quale si devono più di 15 opere per questo strumento pubblicate in Olanda in due raccolte: l’op. 7, del 1715, e l’op. 9, del 1722. Che il tentativo di Albinoni fosse quello di esplorare le possibilità dell’oboe è testimoniato dalla precisione di una scrittura che non riserva al solista gli spazi tradizionali per l’improvvisazione e che accentua, specie nelle pagine più animate, il dialogo con il “tutti” dell’orchestra, non ridotta a un ruolo di semplice accompagnamento.
Händel guardò all’Italia per la forma dei suoi Concerti Grossi, in particolare a Corelli, che aveva conosciuto durante il suo soggiorno a Roma, ma trasformò il principio della distinzione fra l’insieme del “tutti”e le parti solistiche del cosiddetto “concertino” in uno schema sul quale si innestano tanto la disciplina tedesca del contrappunto quanto lo spirito di grandiosità che egli seppe infondere nella musica strumentale inglese. Nel corpus dei Concerti Grossi dell’op. 6, quello in re minore (n. 10) è quello che forse meglio esprime la sintesi europea che Händel diede a questo genere musicale, iniziando con un’Ouverture in ritmo puntato “alla francese” per passare a un’Aria lenta di carattere aristocratico e concludersi con movimenti vivaci nei quali si intrecciano cantabilità, contrappunto e virtuosismo.
Stefano Catucci
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Orari di apertura al pubblico
La biglietteria è chiusa nei mesi di luglio e agosto 2023.
Riapre per la campagna abbonamenti dal 6 settembre al 13 ottobre 2023 nel seguente orario:
Ogni martedì ore 10:30-13:30 e 14:30-18:00
mercoledì ore14.30-18
venerdì ore 10.30-13.30
C.F. 97591360017
P.I. 08528040010