11 novembre 2025
Ispirato dalla musica del tardo Ottocento, Ancora ieri di Francesco Mo è «un omaggio alla fragile, ma tenace resistenza della memoria come voce viva e impellente». Nella sua scrittura, il giovane compositore torinese sviluppa una breve melodia presente nella Prima Sinfonia di Gustav Mahler, facendola diventare protagonista di «un brano che, sospinto da un moto ondoso naturale, raggiunge le sponde del nostro tempo» dopo aver compiuto un immaginario viaggio nel passato.
La generosità delle maree è in grado di riportare a riva anche i Liebeslieder-Walzer di Brahms e la Chamber Symphony di Šostakovič: due composizioni che, come messaggi in bottiglia, custodiscono un segreto pronto a svelarsi oltre il vetro della loro superficie.
I Liebeslieder-Walzer op. 52 (“I valzer dei canti d’amore”) nascono come un ciclo di brani per coro e pianoforte a quattro mani, in seguito trascritto per orchestra d’archi nell’adattamento eseguito da OFT. Composta da Brahms durante i suoi anni di permanenza a Vienna, l’op. 52 riscuote un immediato successo anche grazie alla sua capacità di coniugare due tendenze musicali della capitale austriaca.
Al tempo della loro pubblicazione, nel 1869, la città è ricca di musicisti amatoriali che hanno l’abitudine di darsi appuntamento nei propri salotti per cantare brani per voce e pianoforte di ispirazione poetica (i lieder, “canzoni”). Inoltre, Vienna è già allora la città dei valzer per eccellenza e sono passati appena tre anni dalla pubblicazione di Sul bel Danubio blu di Johann Strauss. Nella sua versione originale, i Liebeslieder-Walzer mettono così in musica dei versi d’amore, affidandoli all’accompagnamento del pianoforte e dando loro un tempo di danza: una combinazione irresistibile.
Le melodie suonate dall’orchestra d’archi sono quindi costruite attorno a versi di poesie a sfondo romantico, che ne scandiscono il carattere e l’umore. Anche senza parole, questi brani sanno raccontare le attese, i desideri, le gelosie in cui possono imbattersi due amanti. Così il primo valzer - lieto, incantato - è accompagnato nell’originale dalle strofe: Dimmi fanciulla amatissima / spiegami perché nel petto freddo / hai lanciato con lo sguardo / questa impetuosa e ardente passione!
Il sesto valzer, fra tutti il più famoso, traduce invece in musica il battito d’ali di un uccellino che, impigliandosi nelle fronde di un albero, diventa la metafora di come ci si possa imbattere per caso in un nuovo amore.
Condotta da un trascinante tempo di danza, in alcune sue parti l’op. 52 di Brahms sembra tuttavia rievocare il ballo solitario, abbracciato a una scopa, di chi sogna l’amore piuttosto che poterlo vivere. La raccolta tradisce «una malinconia di fondo, ma dissimulata, come quando si atteggia il volto al sorriso per celare un’intima sofferenza». Nel risvolto dei Liebeslieder-Walzer Brahms nasconde infatti il ricordo dei suoi amori non corrisposti, coltivati anche per anni con dolorosa discrezione. Animati da poesie che cantano di passioni immaginarie, questi valzer diventano così un omaggio agli amori immaginati.
La Chamber Symphony di Dmitrij Šostakovič è la trascrizione per orchestra d'archi del suo Quartetto n. 8 op. 110, un adattamento che estende a più strumenti un brano originariamente concepito per solo quattro esecutori (due violini, una viola e un violoncello). Il Quartetto da cui ha origine questa composizione viene scritto nell’estate del 1960 in Germania, dove Šostakovič viene invitato per collaborare alla realizzazione di un film dedicato alla ricostruzione di Dresda dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Sconvolto dalle profonde cicatrici che ancora attraversano la città tedesca, Šostakovič scrive di getto, in appena tre giorni, un «urlo nero» dedicato «Alle vittime del fascismo e delle guerre».
Nonostante la presenza di una dedica così universale, Šostakovič affida alla Chamber Symphony un carattere profondamente personale.
Rende anzitutto protagonista dell’opera un tema di quattro suoni (Re-Mi bemolle-Do-Si) che coincidono, secondo la notazione tedesca in cui a ciascuna nota corrisponde una lettera, con le iniziali del compositore: D-S-C-H (facendo riferimento alla trascrizione del suo nome adottata in Germania, ovvero “Dmitri Schostakowitsch”).
Oltre a essere firmati dal nome di Šostakovič, i movimenti della Chamber Symphony sono infestati da citazioni di sue vecchie opere: temi tratti da sinfonie, melodrammi, concerti scritti anni prima che compaiono come fantasmi girato l’angolo di ciascun movimento.
Adottando la Chamber Symphony come un lungo racconto del proprio passato, Šostakovič vuole contare fra le vittime dei fascismi e delle guerre anche sé stesso. Rimasto in Russia per tutta la durata del regime stalinista, il compositore ha vissuto anni terribili, trascorsi sotto lo sguardo di un regime ostile a ogni forma di libertà artistica. Una vita a lungo segnata dall'incubo che, da un momento all'altro, qualcuno potesse presentarsi alla porta bussando coi colpi violenti che aprono il quarto movimento (Largo).
In questo drammatico bilancio sulla sua esistenza, Šostakovič adotta nella Chamber Symphony due movimenti lenti conclusivi, là dove di norma ne è previsto solo uno: una sorta di chiusura a doppia mandata, senza alcun appello, sul proprio passato. Tuttavia, l’espediente più drammatico dell’intera composizione consiste nella presenza di diversi passaggi eseguiti con le ‘corde vuote’: una tecnica in cui la corda viene sfregata con l’arco così come si presenta sullo strumento, senza che l’esecutore ne prema un punto sulla tastiera per determinare un suono.
Il risultato è una vibrazione vacua e spietata come un ricordo su cui non si ha alcun controllo, se non quello di rievocarlo per rimanerne - ancora - feriti.
Francesco Cristiani
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21 ottobre 2025
Quando nel Seicento fu osservato per la prima volta il fenomeno della fosforescenza, i minerali che assorbono i raggi solari per poi illuminarsi al buio vennero chiamati spugne di luce. Un nome suggestivo, da alchimisti, che si presta bene anche a descrivere quelle composizioni che trattengono l’essenza del momento in cui furono scritte e ne restituiscono il bagliore ad ogni ascolto.
L’esecuzione del Cantus in Memoriam Benjamin Britten risplende così della luce tenue di un pomeriggio del 5 dicembre 1976, giorno in cui Arvo Pärt apprende alla radio la notizia della scomparsa di Benjamin Britten. Fra i compositori più influenti del Novecento inglese, Britten muore a poco più di sessant’anni, prima che Pärt possa realizzare il desiderio di incontrarlo personalmente. Colto da un profondo senso di perdita, il compositore estone decide di completare un lavoro già abbozzato e di dedicarlo alla memoria di Britten. Nella stesura del Cantus introduce due silenzi, all’inizio e alla fine della partitura, che rappresentano l’apparente vuoto che precede e segue ogni esistenza, scegliendo poi di scandirla col rintocco di una campana che suona solo un la: la nota con cui le orchestre di tutto il mondo si accordano, trasformata qui in un battito vitale.
Pärt imposta poi tutta l’opera come una lunga caduta a rallentatore, in cui le cinque sezioni degli archi suonano le stesse note, ma iniziando in momenti diversi ed eseguendole a velocità diverse, formando così strati di melodia che si depositano ininterrottamente gli uni sugli altri in una lenta, rassegnata meditazione sui confini invalicabili dell’esistenza.
Scritta cento anni prima del Cantus di Arvo Pärt, la Sinfonia n. 2 di Johannes Brahms si accende invece dei colori saturi delle Alpi austriache, dove il compositore ne inizia la scrittura durante una delle sue estati più felici.
Quando nell’agosto del 1877 si stabilisce nei pressi del lago di Wörthersee, Brahms ha infatti da poco assistito al successo della sua Prima Sinfonia.
La fortuna del suo primo lavoro sinfonico inietta uno straordinario entusiasmo in Brahms, che non si lascia intimorire dall’idea che un tale successo possa essere irreplicabile, ma che anzi si mette subito all’opera su una Seconda Sinfonia durante le sue vacanze estive, ispirato da boschi sterminati fra i cui alberi «le melodie volano dappertutto, tanto che bisogna stare attenti a non calpestarne nessuna». Il primo elemento che appunta durante le sue passeggiate è una scherzosa rielaborazione della sua celebre Ninna Nanna, una versione «per bambini cattivi e malaticci» che diventerà - dopo qualche rimaneggiamento - uno dei temi protagonisti dell’Allegro ma non troppo, introdotto dopo qualche minuto dal canto dei violoncelli.
Là dove la Prima Sinfonia aveva richiesto innumerevoli ripensamenti, la Seconda Sinfonia prende così vita in pochi mesi. Nella scrittura, Brahms si appella a un piccolo catalogo di modi in cui la felicità possa manifestarsi in musica. Inserisce melodie commosse e cantabili nell’Adagio ma non troppo, atmosfere pastorali o accenni di valzer nell’Allegretto grazioso quasi andantino (un movimento con «il bis in tasca», avrebbe scritto a un amico) e una squillante fanfara a chiusura dell’Allegro con spirito.
Mentre sta ancora ultimando la scrittura della sua Seconda Sinfonia, Brahms ama prendersi gioco bonariamente dei suoi amici e del suo editore prima che possano ascoltarla. Invece di presentarla come un’opera luminosa, festante, per aumentare lo stupore di chi la sentirà di lì a qualche mese comincia a scrivere nelle sue lettere che si tratta invece di un lavoro dal carattere lugubre e cupo. «Non ho mai scritto nulla di così triste, per cui penso che la partitura dovrà essere listata a lutto e stampata col bordo nero». O addirittura: «gli orchestrali dovranno suonare con un nastro nero attorno al braccio».
Dopo aver ascoltato la prima esecuzione della Seconda Sinfonia, i corrispondenti di Brahms si sarebbero immediatamente accorti dello scherzo, lasciandosi contagiare dalla sua irresistibile leggerezza.
Alcuni fra loro, tuttavia, si sarebbero chiesti perché in alcuni punti dell’opera sembrasse spuntare, inattesa, una certa inquietudine. Quando gli verrà chiesta la ragione di queste penombre, Brahms risponderà che per lui la malinconia è sempre in agguato, pronta a «svolazzare con le sue ali nere» anche nel cuore di un’estate trascorsa in serenità. Non avrebbe però mancato di aggiungere che non è necessario prendere «troppo tragicamente o seriamente» queste incursioni. In particolare i rombi di timpano e il tono lugubre degli ottoni del primo movimento, che avevano colpito a tal punto uno dei suoi contemporanei da spingerlo a chiedergli se non fosse meglio cancellarli del tutto dalla partitura.
Parte fondamentale della Sinfonia n. 2, questi passaggi sono un rannuvolarsi necessario, ma passeggero, sospinto presto via dalle correnti miti di una musica che, illuminandosi a ogni nuova esecuzione, «riscalda come il sole».
Francesco Cristiani
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03 giugno 2025
Al Museo dell’Automobile di Torino è possibile osservare i primi veicoli che hanno attraversato le strade europee all’inizio del Novecento. Dotati di sedili in pelle ricamata, eleganti parasole e lanterne tondeggianti, si possono confondere facilmente con delle semplici carrozze, se non fosse per il motore nascosto dietro i loro pannelli di legno laccato. Sono oggetti curiosi e avveniristici, intrappolati fra due epoche.
L’Ouverture da Le creature di Prometeo, il Terzo Concerto per pianoforte e la Seconda Sinfonia sono opere nate in un periodo di «magma creativo» simile a quello vissuto da Beethoven durante i primi anni dell’Ottocento. Un tempo in cui il compositore - poco più che trentenne, da tempo residente a Vienna e lì riconosciuto come una tra le personalità musicali più interessanti del suo tempo - sta inseguendo una rotta che al volgere del secolo porti lontano, verso una musica nuova. «Ogni giorno mi avvicino alla meta, che sento ma non so definire», scrive a un amico in quegli anni. Quel che è certo è che il Settecento, il suo garbo equilibrato e le sue buone maniere, devono lasciare il posto a una musica nuova, viscerale, imprevedibile.
Scritte mentre Beethoven punta l’indice all’insù, cercando di capire verso dove tiri il vento della sua rivoluzione, queste tre opere sono come le prime automobili di un’epoca nuova. Mentre ancora sembra impercettibile la differenza fra carrozza e carrozzeria, nascondono sotto i panni di un tempo passato (il classicismo) il segreto di un tempo che verrà (il romanticismo).
Il senso di urgenza che anima la musica di Beethoven all’inizio dell’Ottocento è percepibile anche in un’opera strettamente legata alla cultura del XVIII Secolo come il balletto allegorico a sfondo mitologico Le creature di Prometeo, per il quale nel 1801 Beethoven scrive le musiche su invito del grande coreografo italiano Salvatore Viganò, in servizio alla corte di Vienna.
Nell’Ouverture che introduce la rievocazione in danza di uno dei miti legati a Prometeo, si sente una musica di gusto ancora classico, eppure spintonata qua e là da una pulsazione sotterranea. Beethoven dimostra di aver assorbito la lezione di Haydn o Mozart - chiudendo gli occhi, si potrebbe ancora pensare in qualche passaggio che l’Ouverture possano averla scritta loro - e al contempo pare ormai aver raggiunto «un punto di saturazione che gli sta per permettere di creare una cosa nuova».
Il banco di prova prediletto da Beethoven in quegli anni per sperimentare le «cose nuove» della sua musica è dentellato come la tastiera di un pianoforte. Nelle composizioni per pianoforte solo - come le celebri sonate Patetica o Al chiaro di luna - Beethoven sta ridefinendo il modo in cui questo strumento viene suonato, deciso ad esplorarne tutte le potenzialità espressive e virtuosistiche.
Nel Concerto n. 3 in do minore per pianoforte e orchestra op. 37, terminato nel 1803 ed eseguito per la prima volta da Beethoven stesso in qualità di solista, questa nuova muscolatura viene sfoggiata fin dalle rapide successioni di note suonate da entrambe le mani che accompagnano l’ingresso del pianoforte: un gesto vigoroso, assertivo e inedito per il suo tempo.
Fortemente debitrice della scrittura per pianoforte solo di Beethoven è anche la lunga cadenza che conclude l’Allegro con brio: una serie di «invenzioni, capriole e salti» eseguiti dal solista senza l’orchestra alle quali rispondono, a sorpresa, i timpani (uno strumento che nel primo Ottocento ricopre ancora il ruolo di mero supporto ritmico, promosso qui da Beethoven a interlocutore diretto del solista).
Un innovativo rovesciamento di ruoli che torna anche nel Largo centrale: un movimento scritto in una tonalità (l’insieme delle principali note - e delle loro relazioni - che determinano il clima e l’atmosfera di un brano) così distante da quella adottata nel primo movimento da creare un senso di piacevole spaesamento, dove il compositore affida al pianoforte solista il compito di accompagnare con garbo il flauto e il fagotto.
Una breve pausa dal ruolo di protagonista che anticipa un Rondò: Allegro in cui i vezzi e le maniere della cultura musicale dalla quale Beethoven sta progressivamente prendendo le distanze diventano il soggetto di una irresistibile caricatura («prima di liquidare uno stile perchè a suo avviso inattuale, Beethoven sembra costringerlo ad una smorfia di dolore», avrebbe osservato tempo dopo un celebre critico musicale).
Il senso di «irreversibile congedo dalla tradizione» di questo ultimo movimento risuona in tutta la Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36, eseguita in prima assoluta la stessa sera in cui viene presentato il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra. Le recensioni del tempo che la descrivono come il canto di «un drago orribilmente ferito, che si contorce e si rifiuta di morire», additandola per la sua «bizzarria» e «brutalità», dimostrano come quest’opera prepari il terreno alle future sinfonie di Beethoven e al loro slancio innovativo. Edificata ancora sulle fondamenta delle sinfonie settecentesche, sul loro gusto per l’equilibrio e la grazia, la Seconda di Beethoven sembra caricarle di un peso che queste riescono a malapena a reggere. Travi e piloni scricchiolano scossi da una scrittura fatta di gesti violenti e improvvisi, di continue sorprese e colpi di scena con cui Beethoven si dimostra un narratore eccezionale, capace di tenere il suo pubblico sempre all’erta.
Un effetto ottenuto anche grazie a un certo gusto per le asimmetrie e le frammentazioni, cambi di direzione improvvisi che rendono l’orchestra una creatura difficile da inseguire, sempre pronta a seminare chi provi a prevedere il suo tragitto durante lo Scherzo o l’esuberante Allegro molto.
In questo movimento conclusivo Beethoven inserisce con coraggio persino un salto acuto e poi grave affidato ai legni e agli archi che al tempo deve essere sembrato ai suoi contemporanei un’irriverente pernacchia. A posteriori, questa curiosa soluzione ha piuttosto il suono di un fischio lanciato da Beethoven a chi desideri seguirlo verso le sue meravigliose rivoluzioni.
Francesco Cristiani
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13 maggio 2025
Nei programmi di sala in lingua inglese quando viene fatto il nome di Richard Strauss può capitare di trovare fra parentesi la dicitura «no relation to Johann» (“nessuna relazione con Johann”), una sorta di slogan che chiarisce l’assenza di qualsiasi parentela fra Richard Strauss e i due Johann Strauss, padre e figlio, autori rispettivamente della Marcia di Radetzky e Sul bel Danubio blu. Pare anzi che quando a Richard venisse chiesto se fosse imparentato con gli Strauss celebri per i loro valzer, questi sorridesse aggiungendo con ironia: «Magari!».
Pur non appartenendo alla dinastia degli “Strauss di Vienna”, il compositore tedesco è comunque figlio di un importante musicista del suo tempo, il cornista Franz Strauss, che contribuisce alla maturazione di un talento in grado di dare i suoi primi frutti quando Richard è ancora un bambino.
Nel 1884 Strauss ha appena vent’anni, compone da quando ne ha sei e diversi suoi brani sono già stati stampati ed eseguiti pubblicamente. Fra questi, una piccola Serenata per orchestra di fiati ha suscitato l’interesse del direttore d’orchestra Hans von Bülow, che commissiona a Richard un’opera di più ampio respiro per lo stesso organico. Felice di aver impressionato una figura così eminente - e nota per la sua intransigenza - Strauss si mette all’opera sulla Suite in si bemolle maggiore per 13 strumenti a fiato op. 4. La scrittura è già iniziata da qualche settimana quando apprende che von Bülow desidera da lui un brano che omaggi il periodo barocco e le sue sonorità. Preso in contropiede, Strauss non cambia una nota del primo movimento - che fortunatamente risuona di un certo gusto per l’equilibrio tipico della musica barocca - dandogli il pomposo titolo di Präludium.
Il resto dell’opera è però ancora in lavorazione, così Strauss vi introduce una danza in voga durante il Settecento (la gavotta) e una forma di composizione tipicamente barocca come la fuga, nella quale un’idea musicale viene presentata progressivamente da tutti gli strumenti per poi essere elaborata e sviluppata secondo regole molto complesse. Citando con originalità queste due forme tradizionali e sfruttando con intelligenza le combinazioni di strumenti che arricchiscono anche la musica destinata a un’orchestra completa - come l’unione di corni e fagotti utilizzati come un piccolo coro nella Romanze - Strauss riesce a convincere il «burbero e mefistofelico» von Bülow. Dopo aver promosso questa “lettera di presentazione” in musica, von Bülow sarebbe così diventato il mentore del giovane Richard Strauss, favorendo l’inizio della sua lunga carriera di compositore e direttore.
Il potenziale espressivo degli ensemble di fiati è al tempo di Strauss ampiamente riconosciuto anche grazie all’eredità della Harmoniemusik (“musica per le Harmonie”). Nate nel Settecento come piccole orchestre di soli fiati (con la possibile aggiunta del contrabbasso in sostituzione di strumenti gravi come la tuba o il controfagotto), queste formazioni si diffondono presso le famiglie nobili che non possono permettersi un'orchestra completa che accompagni gli eventi sociali o i ricevimenti. Inizialmente destinatarie di un repertorio essenziale nelle forme e nei contenuti, le Harmonie guadagnano nel tempo l'attenzione di grandi compositori, come Wolfgang Amadeus Mozart, che si dedicano alla scrittura di Harmoniemusik originale e curata.
Per nobilitare l’Harmonie Mozart sceglie uno dei generi musicali più praticati da questo tipo di orchestra, la serenata, arricchendo una forma compositiva pensata solitamente per essere eseguita all’aria aperta, in giardini punteggiati di orecchie distratte. Il carattere “d’occasione” della Serenata K361 non va quindi oltre il suo titolo, a cui una mano sconosciuta avrebbe affiancato tempo dopo la morte di Mozart la dicitura Gran Partita, sinonimo di “grande raccolta di brani”. La data di composizione è un mistero ancora irrisolto fra i musicologi, che hanno persino cercato di capire quale carta avrebbe acquistato Mozart al momento della stesura di quest’opera per risalire a un anno certo. Molte delle risposte indicano il 1783, anno in cui Mozart si sta affermando a Vienna come un instancabile libero professionista, impegnato fra lezioni e commissioni di opere da scrivere. Un’ipotesi avvalorata anche dall’unica testimonianza di un’esecuzione pubblica viennese della Gran Partita, accolta dall’entusiasmo di un ascoltatore del tempo che l’avrebbe poi ricordata sul suo diario come «meravigliosa e grandiosa, eccellente e sublime!».
In un tempo in cui le Harmonie sono composte da non più di otto musicisti, Mozart decide di scrivere la Gran Partita per ben 13 strumenti: un numero pari a quello adottato cento anni dopo da Strauss, con l’eccezione dei due flauti che vengono sostituiti da due corni di bassetto (un particolare tipo di clarinetto che gode dell’interesse di Mozart).
Altrettanto eccezionale è la durata della Gran Partita: da sequenza di brevi danze dal carattere tipicamente leggero e amabile, la serenata si trasforma in un’opera composta da lunghi movimenti, spesso ispirati a forme musicali tipiche del repertorio “serio” (come il Tema con variazioni o il Minuetto).
Nella meravigliosa anomalia di questi movimenti, nel loro respiro ampio ed esigente, Mozart si prende tutto il tempo per esplorare le combinazioni possibili fra i componenti dell’Harmonie: li mette in dialogo, li contrappone, utilizza lo stesso strumento prima come solista e poi come parte dell’accompagnamento, disponendo le note come le tessere di un tangram che restituisce sempre immagini essenziali ed eloquenti.
Una perfetta sintesi di questo equilibrio è affidata al movimento più celebre di tutta l’opera: un Adagio in cui il canto dell’oboe solista viene calato dall’alto, come un inaspettato oggetto di scena. Alla fortuna dell’Adagio ha contribuito in tempi recenti la citazione che ne viene fatta nel film Amadeus (1984) diretto da Miloš Forman. Questa pellicola condivide con la pièce teatrale dalla quale è tratta un’innumerevole lista di licenze sulla vita del grande compositore, sfruttando anche il cliché della sua presunta rivalità con Antonio Salieri. È proprio quest’ultimo a commentare durante una sequenza del film le note dell’Adagio, descrivendole come «la voce di Dio»: una frase forse mai pronunciata dal compositore italiano, che in compenso può spesso sfuggire ascoltando la musica di Mozart.
Francesco Cristiani
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08 aprile 2025
Da qualche anno la National Gallery di Londra ha digitalizzato una buona parte del suo inestimabile patrimonio artistico, rendendolo disponibile alla consultazione sul suo sito. Passeggiando fra le sue sale senza muovere un passo, ci si può imbattere anche nell’Assunzione della Vergine del pittore rinascimentale Matteo di Giovanni. L’opera raffigura il celebre passaggio biblico in cui Maria ascende in cielo accompagnata da una folla di angeli: un momento risolutivo, di festa, in cui i cherubini sono impegnati a suonare vari strumenti musicali. Uno di loro, ritratto nella parte destra dell’opera, impugna quella che si ritiene essere la prima rappresentazione in assoluto di un trombone.
L’Assunzione della Vergine viene realizzata da di Giovanni attorno alla metà del Quattrocento ed è proprio a questo periodo che risale la nascita del trombone. Sviluppatosi come derivazione della tromba, questo strumento è in grado di emettere suoni più gravi di quest’ultima anche grazie alla coulisse, un tubo a forma di ‘u’ che determina le note emesse a seconda della posizione in cui viene fatto scorrere. Nel corso della sua lunga storia il trombone avrebbe incontrato fortune alterne, restando per lungo tempo legato alla musica sacra prima di trovare nel corso dell’Ottocento sempre maggior spazio nelle orchestre di tutta Europa.
Quando nel 1955 il compositore svedese Lars Erik-Larsson decide di scrivere dodici piccoli concerti dedicati a ciascuno degli strumenti solitamente presenti nell’orchestra, fra questi non manca il trombone che ormai ne è diventato un componente fondamentale.
Al momento della scrittura di questa raccolta, Larsson si è già affermato da tempo come uno dei compositori svedesi più importanti della sua generazione. Dopo anni di impegno come direttore, compositore e programmista per la Radio Svedese, a metà degli anni Cinquanta insegna al Conservatorio di Stoccolma e cura nel frattempo la supervisione di orchestre sinfoniche non professionistiche finanziate dal governo svedese.
Proprio per arricchire il repertorio di questi piccoli ensemble vengono ideati i Concertini Op. 45, che per la qualità della loro scrittura si sarebbero ritagliati nel tempo uno spazio anche nei programmi delle orchestre professionali.
Nel Concertino per trombone, questa originalità si riscontra anzitutto nel rapporto fra solista e orchestra del Preludio: un botta e risposta che non vede quasi mai suonare insieme i due protagonisti della composizione.
Solista e orchestra sono poi pronti a riunirsi durante un’Aria cantabile ed espressiva a cui segue, in netto contrasto, un Finale che sembra invece il commento sonoro di un cartone animato: irresistibile, ammiccante e pronto a citare nella sua conclusione il motivetto di origine statunitense «Shave and a haircut… two bits!» («Barba e capelli… venticinque centesimi!»), da noi noto come «Ammazza la mosca col flit!».
Il carattere dell’ultimo movimento del Concertino di Larsson anticipa lo spirito ironico della suite Minimax - Repertorium für militarmusik di Paul Hindemith, di cui OFT esegue alcuni movimenti.
L’opera viene scritta in appena due giorni nel luglio del 1923, in vista dell’esecuzione da parte del quartetto Amar (di cui fa parte anche Hindemith, in qualità di violista) al Festival di Donaueschingen. La rassegna ospitata in questa piccola cittadina della Germania meridionale è un punto di riferimento per lo sviluppo della musica da camera del primo Novecento, pur non rinunciando a un’atmosfera conviviale che ben si sposa con il temperamento scanzonato di Hindemith. Oggi possiamo persino vedere un curioso scatto in cui il quartetto Amar posa impettito con degli elmetti di carta e gli archetti dei violini a mo’ di fucili prima della première di Minimax.
La leggerezza di quei giorni resta impigliata nella filigrana dei giochi di parole che Hindemith riserva a quest’opera. Il titolo affianca così la dicitura “Repertorio di musica militare” a “Minimax”, una marca di estintori molto diffusi all’epoca. Il titolo del primo movimento Armeemarsch 606 (“Der Hohenfürstenberger”) fa riferimento al catalogo delle Marce Militari di origine prussiana in uso presso l’esercito tedesco e in particolare alla Marcia di Hohenfriedberg, di cui viene storpiato il nome. Ascoltandone la parodia non ci si dovrà stupire delle note ‘sbagliate’ eseguite dai violoncelli e dal contrabbasso che - indica Hindemith in partitura - «imitano una tuba militare con un pistone inceppato per il freddo».
Se l’origine dei valzer citati nel movimento Löwenzähnchen an Baches Rand (“Denti di leone al bordo del ruscello”) non è ancora del tutto chiarita, il movimento successivo Die beiden lustigen Mistfinken (“I due buffi fringuelli stercorari”) irride la polka Die beiden kleinen Finken (“I due fringuelli”) del compositore svizzero Henri Kling.
Infine il sesto movimento Alte Karbonaden non è che la parodia del valzer militare Alte Kameraden (“Vecchi compagni”): oltre che in partitura, lo scherzo di Hindemith si estende anche qui al titolo, che fa riferimento alle karbonade, termine che in Austria allude alle costine di maiale grigliate.
Fra le pieghe della commedia si nascondono tuttavia i ricordi ancora vivi della Prima Guerra Mondiale. Hindemith vi ha preso parte come musicista nelle bande militari (suonando la grancassa), come membro di un quartetto assunto per allietare le serate dei Generali e infine, per un breve periodo, come sentinella in trincea (sfuggendo alla morte - ricorderà poi nei suoi diari - per pura fortuna). Parodiando le parate all’aperto e i valzer delle serate di gala affollate di alamari e mostrine, Minimax assume allora i contorni di una barzelletta fondata su una storia vera, la caricatura di un terribile incidente che si ha la fortuna di poter raccontare.
Sorridenti ma tutt’altro che parodistiche sono invece le reminiscenze presenti nella Suite per trombone contralto e quartetto d’archi scritta dal compositore italiano Corrado Maria Saglietti ed eseguita da OFT in un adattamento per orchestra d’archi. L’opera nasce nel 1992 quando il trombonista Joe Burnam commissiona a Saglietti un brano che arricchisca il repertorio solistico dedicato a questo particolare tipo di trombone (più piccolo e in grado di emettere una gamma di suoni più acuti). Vede la luce così, inizialmente come brano autonomo, il Tango introduttivo che traduce per questo ensemble cadenze e atteggiamenti del celebre ballo argentino. A questo verranno aggiunti in un secondo momento, per formare la Suite completa, i restanti due movimenti: una Canzone che desidera «far cantare in maniera trasparente l’orchestra» insieme al solista e uno Speedy in cui fra echi swing compaiono anche tecniche non convenzionali, come la percussione del corpo o il soffio diretto nello strumento senza l’utilizzo del bocchino, l’imboccatura in cui solitamente il trombonista immette l’aria.
La scelta di arricchire un brano di musica contemporanea con diversi riferimenti a culture musicali di origine popolare come il tango o lo swing va attribuita alla grande importanza che Saglietti riconosce a queste tradizioni musicali. Se propriamente elaborate e tradotte in un linguaggio originale, permettono a suo avviso di comunicare in maniera immediata e autentica con il proprio uditorio, attingendo a una memoria collettiva di suoni, ritmi o melodie.
Se la storia di Minimax è anche una storia di giochi di parole, quella delle Danze popolari rumene è anche una storia di luoghi. Sono innumerevoli infatti i paesi e le frazioni in cui Béla Bartók porta con sé un piccolo registratore a cilindri di cera per catalogare la musica tradizionale della Romania. Una ricerca instancabile che lo porta fra il 1909 e il 1917 a raccogliere oltre 3.500 melodie eseguite appositamente per lui. La musica tradizionale popolare - della Romania così come di altri Paesi dell’Europa Orientale - rappresenta infatti un nutrimento fondamentale per il linguaggio compositivo di Bartók e incarna a suo avviso «quanto di più perfetto possa esistere, per via di una grande forza espressiva che è tuttavia priva di ogni sentimentalismo».
Nei primi anni Dieci del Novecento le ricerche di Bartók si concentrano nel nord della Romania, dove si reca a più riprese per documentare la musica praticata dalle popolazioni transilvane. Studia la lingua rumena, prende contatti con diversi studiosi specializzati e fra questi il professor Ion Busitia, a cui dedica le Danze popolari rumene, frutto della rielaborazione di sette melodie registrate in diversi paesi della Transilvania fra il 1910 e il 1912.
Nate per pianoforte nel 1915 e poi trascritte per piccola orchestra due anni dopo, le Danze popolari rumene di Bartók testimoniano un grande rispetto per le fonti dalle quali traggono ispirazione, facendo sì «che la materia musicale con cui si riveste la melodia originale sia intrisa del suo stesso carattere».
Nel caso in cui si volesse avere una prova di questa veracità, basterà ascoltare direttamente le melodie originali che hanno ispirato le Danze popolari rumene. Al pari della National Gallery di Londra con le sue opere d’arte, gli Archivi Bartók di Budapest hanno infatti digitalizzato le innumerevoli registrazioni effettuate sul campo dal compositore ungherese, permettendoci di riascoltare il canto incostante e spontaneo della musica di cui era innamorato.
Francesco Cristiani
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11 marzo 2025
La storia della musica è attraversata da mode che, durando per decenni o per il tempo di un capriccio, influenzano i compositori di ogni epoca. Ai tempi di Bach e Telemann, l’artista svolge un lavoro artigianale nel quale è necessario soddisfare una committenza spesso attratta da novità e tendenze musicali all’ultimo grido. Come sarti a cui viene richiesta una manica a sbuffo o un particolare ricamo sul panciotto, i compositori sono così abituati a confezionare opere che calzino a pennello con i gusti e le esigenze più varie.
Nella Germania del primo Settecento una delle forme musicali più in voga è la suite, una composizione di origine francese che prevede la successione di vari brani ispirati a danze praticate presso le corti di tutta Europa. Brevi e caratteristici, i movimenti di una suite si prestano all’occorrenza a diventare i capitoli di un racconto in musica ispirato a un particolare tema. Vengono così composte suite che raccontano stati emotivi, personaggi mitologici, nazioni, fenomeni naturali ed epoche storiche, giocando con l’immaginazione di un pubblico incuriosito e sorpreso. Uno dei maestri delle cosiddette suite ‘a programma’, noto per la sua capacità di dipingere in musica i soggetti più svariati, è Georg Philipp Telemann.
Nel 1720 Telemann risiede a Francoforte ed è uno dei compositori più richiesti del suo tempo. Prolifico, versatile, curioso, è in grado di adattare la sua scrittura alle esigenze degli amatori così come degli strumentisti professionisti.
Durante gli anni spesi nella città sul Meno, viene apprezzato anche per la sua capacità di scrivere suite dedicate ai soggetti più singolari. Riuscendo a mettere in musica i «versi delle rane e dei corvi» e persino il crollo della borsa di Parigi (ne La bourse), Telemann scrive anche una suite dedicata a uno dei romanzi più importanti che siano mai stati scritti: Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes.
La storia di un rispettabile uomo di mezza età che, fatta indigestione di romanzi cavallereschi, comincia a vagare per le campagne combattendo contro implacabili mulini a vento o feroci greggi di pecore è all’inizio del Settecento famosa in tutta Europa e fonte d’ispirazione per molti compositori.La suite ‘a programma’ Burlesque de Quixotte è il frutto dell’incontro fra il capolavoro di Cervantes e il genio immaginifico di Telemann. Come un libro pop-up, la suite apre degli scorci sui protagonisti e sulle scene più famose del romanzo, restituendone in musica tutto il carattere ironico e irresistibile.
Dopo un’Ouverture che predispone la vicenda, seguiamo così una traduzione in musica del risveglio di Don Chisciotte dopo una delle sue avventure (Le réveil de Quichotte); delle sue temerarie sferzate contro i mulini a vento (Son attaque des moulins à vent); dei suoi sospiri verso Dulcinea, cui ha deciso di dedicare le sue imprese (Ses soupirs amoureux après la Princesse Dulcinée); del suo impacciato compagno di viaggio, Sancho Panza (Sanche Panse berné); dei due destrieri cavalcati da quest’ultimo e da Don Chisciotte: lo sgraziato cavallo Ronzinante (Le galope de Rosinante) e l’asino Rucio (Celui d’ane de Sanche); e infine, del recupero della ragione da parte di Don Chisciotte (Le couché de Quichotte) che conclude il romanzo di Cervantes.
La confidenza con cui Telemann è in grado di sfruttare il potenziale illustrativo della musica è dovuta anche alla sua profonda conoscenza degli strumenti. È in grado di suonarne diversi, ma con il flauto traverso - al tempo chiamato traversiere e costruito interamente in legno - questi instaura un rapporto privilegiato che sarebbe stato definito in seguito «una bella storia d’amore con quello che lui deve aver considerato il re degli strumenti a fiato».
Nel novero delle molte opere che Telemann avrebbe dedicato a questo strumento, il Concerto per flauto traverso e archi TWV 51:G2 sarebbe stato a lungo estromesso per via dell’impossibilità di poterlo eseguire.
L’unico manoscritto dell’opera sarebbe infatti sopravvissuto in pessime condizioni, con pagine ingiallite crivellate di minuscoli fori causati dall’acidità dell’inchiostro. Un’acidità tale da intaccare la carta, facendo sì che la scrittura sulle pagine di sinistra traspaia su quelle di destra, rendendo difficile decifrare le note. Solo nel 2000 un’équipe di esperti avrebbe curato il restauro e il recupero del Concerto, permettendo di poterne finalmente riapprezzare l’eleganza e il garbo.
Negli stessi anni in cui Telemann risiede a Francoforte, Johann Sebastian Bach è di stanza a Köthen, dove presta servizio alla corte del Principe Leopoldo di Anhalt-Köthen. In linea con le tendenze culturali del tempo, la corte del Principe sta vivendo una «immissione massiccia delle maniere francesi», spinte dal desiderio della nobiltà tedesca di «rispecchiarsi nel fastoso modello di Versailles». Di provenienza francese, la suite è parte di questa assimilazione culturale e nelle corti aristocratiche spesso si spoglia del contenuto ‘a programma’, diventando una semplice successione di danze stilizzate utili a «sostenere la funzione del maestro di cerimonie, del banditore o del camerlengo in occasione di banchetti, feste, parate di corte».
Assecondando le richieste dei suoi committenti a Köthen, Bach scrive dunque alcune Suites destinate ad allietare la vita di corte, non limitandosi tuttavia a comporre della comune musica d’occasione, ma piuttosto infondendo in queste opere tutto il suo sconfinato genio.
La testimonianza di questa cura è riscontrabile nell’Aria tratta dalla Suite n. 3 in re maggiore BWV 1068, divenuta una delle pagine più conosciute del compositore tedesco. Nell’ascoltarla, può essere curioso soffermarsi su come non esista una gerarchia fra gli strumenti che la eseguono: ciascuna parte concorre alla creazione di un meccanismo perfettamente equilibrato, attraversato da una melodia ininterrotta e magnetica.
Durante l’Ottocento, il fascino di questa pagina avrebbe ammaliato a tal punto il violinista tedesco August Wilhelmj da indurlo a scriverne un suo personale arrangiamento per violino solista accompagnato da un piccolo ensemble. Nel suo adattamento, Whilelmij avrebbe fatto in modo che tutto il tema della composizione di Bach fosse eseguito sulla corda più grave del violino solista (la quarta). Col nome di Aria sulla quarta corda, l’opera di Whilelmij sarebbe diventata dopo l’Ottocento di sempre più rara esecuzione, prestando tuttavia il suo nome all’opera originale di Bach nella quale, curiosamente, l’espediente della quarta corda non è presente.
Scritta qualche mese prima della Terza Suite, la Suite n. 2 in si minore per flauto e archi BWV 1067 nasce probabilmente come opera per violino e archi, per poi essere anni dopo rimaneggiata in modo da assegnare il ruolo di solista al flauto. A entrambe queste versioni Bach affida il desiderio di coniugare il genere francese della suite al genere italiano del concerto per strumento solista e orchestra. Una sperimentazione suggestiva nella quale il flauto guida l’ensemble al passo delle danze solitamente protagoniste delle suite.
Così dopo un’Ouverture in stile ‘sublime’ (come si amava dire all’epoca riferendosi alla sontuosità di queste pagine introduttive), il solista e l’orchestra affrontano l’incedere grave e lento della Sarabanda, gli accenti più vivaci della Bourée e più severi della Poloinaise, i piccoli passi del Minuetto e infine il carattere scherzoso e irruento della Badinerie.
Nomi di danze che rievocano sguardi altèri e gesti misurati, cerimonie di corte scandite da una ritualità teatrale e superba. Un mondo remoto come quello dei romanzi cavallereschi letti da Don Chisciotte, da cui proviene l’eco di una musica immortale.
Francesco Cristiani
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25 febbraio 2025
«Sono affascinato dall’idea di usare la musica per ritrarre. Molti compositori, in passato, l’hanno sfruttata per suggerire il corso di un fiume, una tempesta, le onde del mare, un trekking sulle Alpi, il mutare delle stagioni; e a me diverte pensare che con una partitura si possa anche tracciare il volto di una persona.» Inizia così il racconto che il compositore Nicola Campogrande dedica a Quattro modi di sorridere.
Scritto nel 2023, questo lavoro per orchestra d’archi nasce col desiderio di «ritrarre il volto di una persona cara, colto in quattro momenti nei quali l’entusiasmo, la compassione, la bellezza e poi la gioia lo hanno portato ad aprirsi in un sorriso». I suoi quattro movimenti catturano così in musica ciascuna di queste espressioni, invitandoci ad immaginarle durante l’ascolto.
«Certo, non si tratta di ripercorrere le linee, le proporzioni, i colori di un viso» - continua Campogrande - «il gioco consiste piuttosto nel coglierne i movimenti, le trasformazioni. Perché questo sa fare la musica: farci ascoltare il tempo e ciò che nel tempo avviene, dilatandolo o comprimendolo, mettendolo sotto i riflettori o nascondendolo, osservandolo nei suoi dettagli più nascosti oppure offrendocene un’immagine sintetica, essenziale.»
Nel cuore della città d’origine di Nicola Campogrande, Torino, una targa commemorativa è posta nel punto sbagliato. Si trova davanti all’Albergo della Dogana Vecchia - il più antico ancora in attività - e ricorda come in quell’edificio Wolfgang Amadeus Mozart abbia risieduto per qualche giorno in compagnia del padre Leopold. Di recente è stato scoperto che la camera d’albergo dei Mozart si trovava un po’ più in là, appena svoltato l’angolo in Via Bellezia: un dettaglio che costa una manciata di passi in più per raggiungere il luogo in cui, nel 1771, il compositore appena quindicenne aveva riposato durante i suoi giorni di permanenza in Piemonte.
Per il giovane Mozart, Torino è una delle tante tappe italiane raggiunte all’inizio degli anni Settanta del Settecento, durante una serie di viaggi intrapresi alla ricerca di «tutti i vantaggi possibili: artistici, accademici e turistici». Da Napoli a Bolzano, il compositore mette in mostra il suo straordinario talento, esibendosi come strumentista e ottenendo prestigiose committenze. In quei giorni ascolta anche la musica dei suoi contemporanei italiani, dialoga con loro, nutrendo con curiosità «un tesoro di conoscenze e di idee nuove che affinano il suo gusto».
La frenesia dei mesi trascorsi in Italia è seguita da un lungo periodo di permanenza a Salisburgo, dove Mozart viene assunto come violinista, direttore e compositore presso la corte dell’arcivescovo Hieronymus von Colloredo. Sono anni «di greve signoria arcivescovile, di disegni per evaderne, di vita di provincia, non sempre spiacevole». Il rapporto con Colloredo a volte risente di qualche attrito, tuttavia Mozart guadagna a sufficienza per trasferirsi con la famiglia in una casa più grande dove ricevere visite nei giorni in cui non si è ospiti ad una delle feste organizzate dalla buona società austriaca.
Nel 1775, mentre è ancora a Salisburgo, Mozart scrive ben quattro concerti per violino e orchestra, fra cui compare il Concerto in re maggiore K 218. L’opera viene forse composta per essere eseguita da lui stesso alla corte di Colloredo, oppure per essere affidata all’abile violinista italiano Antonio Brunetti, assunto dall’arcivescovo in quei giorni.
A pochi anni dal suo ritorno, Mozart adotta il Concerto come un diario in differita dei suoi viaggi in Italia, affidando alle sue pagine il ricordo dei concerti di gusto italiano ascoltati qualche anno prima. Fra questi, nella sua memoria riecheggia un concerto scritto da Luigi Boccherini, con il quale l’opera K 218 ha una particolare affinità.
Alcuni compositori italiani del tempo, compreso Boccherini, amano trattare lo strumento solista come un cantante d’opera, affidandogli una parte spesso cantabile ed espressiva. L’impressione di ascoltare il pezzo di bravura di un cantante torna così a più riprese durante tutto il Concerto.
Si vorrebbe quasi inventare sulla melodia del solista dei versi che accolgano una confessione d’amore nell’Andante cantabile, la descrizione di una danza immaginaria nel Rondò, o magari anche solo qualche sillaba nel finale dell’opera, dove orchestra e violino eseguono all’unisono lo stesso re delle battute iniziali, questa volta sussurrandolo in tre riprese che concludono il Concerto come punti di cucito.
Al momento della composizione della Sinfonia n. 28, nel 1765, Mozart è ancora un bambino e i giorni in cui sarebbe maturata l’amicizia con Franz Joseph Haydn sono ancora lontani. Anni dopo i due avrebbero avuto modo di conoscersi e persino di suonare insieme in qualche salotto viennese, ma al momento Wolfgang ha poco più di cinque anni, mentre il giovane Haydn è da poco entrato al servizio della corte dei Principi Esterházy, una delle più importanti famiglie della nobiltà ungherese.
In qualità di assistente e futuro successore del kappelmeister (il responsabile di tutta la vita musicale di corte), Haydn lavora molto intensamente e si prepara in vista di anni in cui per tutto il giorno «dovrà comporre, dirigere, seguire le prove, istruire i cantanti e persino accordarsi da solo il clavicembalo».
In una corte fornita di «un proprio teatro d’opera, di un teatro per le commedie e per le marionette, nonché di una propria musica da chiesa e da camera», Haydn avrebbe trascorso quasi trent’anni di intenso lavoro nei quali il suo desiderio di sperimentare e inventare nuove soluzioni in musica avrebbe incontrato il favore dei suoi committenti. «Potevo perfezionare, aggiungere, togliere, arrischiare», racconterà poi, alludendo a come gli sia permesso stupire la corte con gli esiti (fondamentali) dei suoi esperimenti.
Quando per il Carnevale 1765 i Principi Esterházy invitano una compagnia teatrale specializzata in spettacoli burleschi, ad Haydn viene chiesto di scrivere delle pagine che accompagnino, commentino e inframezzino le loro recite. Raccogliendo e ordinando in un secondo momento alcune di queste musiche di scena sarebbe nata la Sinfonia n. 28.
Attraversata da uno spirito scherzoso e amabile, la Sinfonia accoglie alcune di quelle sperimentazioni che sono concesse all’inesauribile creatività di Haydn. Così nell’Allegro di molto iniziale questi scommette con noi di riuscire a scrivere un intero movimento fondato su una pulsazione ritmica di quattro note, seguendo il motto: «Una volta che m’impadronisco di un'idea, il mio intero sforzo è quello di svilupparla e sostenerla a regola d’arte».
Al sospiro delicato del Poco adagio - nato probabilmente come intermezzo di scena - segue un Minuetto in cui Haydn adotta un particolare effetto: il bariolage. Si tratta di una tecnica utilizzata dagli strumenti ad arco nella quale la stessa nota viene suonata consecutivamente su due corde diverse: la prima volta su una corda vuota (ovvero sfregata con l’arco così come si presenta sullo strumento, senza che l’esecutore ne prema un punto sulla tastiera), la seconda volta su una corda accanto premuta invece dal dito del musicista. Il risultato è l’emissione di due suoni simili eppure non identici.
Un curioso espediente che prelude il Presto assai, nel quale Haydn omaggia due danze al tempo in voga in Italia: la Siciliana veloce e il Saltarello, che accompagnano la Sinfonia verso la sua conclusione.
Francesco Cristiani
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28 gennaio 2025
Nella primavera del 1894 Antonín Dvořák è a New York, impegnato come direttore del prestigioso National Conservatory of Music. Nel tempo libero lo si può incontrare fra i viottoli di Central Park o al Grand Central Terminal mentre sbircia, da vero appassionato di treni, le locomotive americane. Per il 9 marzo 1894 la sua agenda prevede la partecipazione a una serata in cui verrà eseguita la prima assoluta di un concerto per violoncello e orchestra scritto da Victor Herbert, suo collega al National Conservatory.
Sedendosi in sala quella sera, Dvořák è curioso. Quando era ancora un giovane compositore aveva scritto un solo concerto per violoncello (completato e pubblicato diversi anni dopo la sua morte) e in passato aveva addirittura affermato: «il violoncello è un bello strumento, ma il suo posto è nell’orchestra o nella musica da camera. Non è infatti adatto a fare il solista, il suo registro medio è piacevole, ma la voce superiore stride e quella inferiore ringhia!». Una convinzione destinata a svanire al termine dell’esecuzione del concerto di Herbert. In preda all’entusiasmo, Dvořák corre nei camerini per congratularsi con il collega. «Stupendo! Stupendo!» gli confessa abbracciandolo, prima di chiedergli se possa consultare la partitura.
Comincia così a maturare in lui il desiderio di comporre un nuovo concerto per violoncello e - diversi mesi dopo aver ascoltato l’opera di Herbert - Dvořák si sente finalmente pronto ad abbozzarne le prime note. Prende allora vita la lunga introduzione dell’Allegro che, facendo attendere per qualche minuto il solista, suggerisce da subito il rapporto di parità che si desidera instaurare fra il violoncello e l’orchestra. Le melodie protagoniste del primo movimento vengono allora anticipate nell’introduzione prima di essere eseguite dal solista e una di queste, presentata dal primo corno, ricorda un commovente spiritual della tradizione americana («ogni volta che la sento, comincio a tremare tutto», ci confessa Dvořák).
La scrittura procede nell’inverno fra il 1894 e il 1895, accompagnando gli ultimi mesi di permanenza del compositore negli Stati Uniti. Il rientro in Europa è infatti previsto per la primavera del ’95 e le pagine più malinconiche del Concerto risuonano della nostalgia di casa. Mentre compone Dvořák desidera riabbracciare i suoi cari e fra questi la sorella della moglie, l’attrice Josefina Čermáková, afflitta in quei giorni da una grave malattia.
Sperando di poterla ancora vedere al suo ritorno, il compositore decide di omaggiarla citando nell’Adagio ma non troppo la melodia di Lasst mich allein (“Lasciami in pace”), brano di Dvořák per voce e pianoforte particolarmente amato da Josefina. Le note di questo tema sono suonate dal violoncello poco dopo l’inizio del movimento, introdotte da un’improvvisa agitazione dell’orchestra che traduce in musica il momento in cui Dvořák apprende la notizia delle gravi condizioni della cognata.
La natura dell’affetto di Dvořák per Josefina è uno dei segreti ben custoditi dalla Storia. Qualcuno sostiene che sia stata uno dei primi amori del compositore e che addirittura questi, anche dopo averne sposato la sorella, ne sia rimasto innamorato per tutta la vita. Una prova a favore di questo amore coltivato in segreto è riconoscibile nell’ultimo movimento del concerto.
Quando Dvořák si imbarca alla volta dell’Europa, crede ormai di aver completato la sua op. 104. Eppure, poco dopo il ritorno del compositore in Boemia, Josefina muore. Il lutto innesca un lavoro di revisione del Concerto e al termine dell’Allegro moderato viene aggiunta una coda in cui il solista, piuttosto che spendersi in una prova da virtuoso, partecipa con l’orchestra a un momento di raccoglimento in cui compare ancora l’ombra della melodia di Lasst mich allein. L’energico finale che ne segue annuncia, per contrasto, la vittoria del ricordo sulla morte. Una memoria che sopravvive, inossidabile, insieme a uno dei concerti per violoncello più amati ed eseguiti al mondo.
Un amore sul quale gli storici non avranno invece alcun dubbio lega Robert Schumann alla compositrice Clara Wieck, per lui punto di riferimento fondamentale in un’esistenza in cui si alterneranno sempre attimi di gioia incontenibile e profondi accessi depressivi.
È durante una di queste crisi che Schumann si stabilisce con la moglie a Dresda «nel più completo smarrimento mentale e morale». La città gli è stata consigliata per via del «clima più mite» e il medico che lo visita poco dopo il suo arrivo appunta: «brividi e debolezza, insieme a un forte dolore e una peculiare paura della morte che assume la forma di un terrore per le alte colline o le case, nonché per tutte le sostanze metalliche, comprese le chiavi».
Mentre i dottori continuano a prescrivere «bagni minerali, lunghe camminate e ipnosi», Schumann fatica a riavvicinarsi alla scrittura («la musica attraversa i miei nervi come un pugnale», racconta a un amico). Qualche attimo di pace gli è però concesso dallo studio del contrappunto, una tecnica compositiva che prevede la sovrapposizione e il dialogo fra due o più melodie indipendenti, divenuta in quei giorni una preziosa enigmistica nella quale rifugiarsi.
L’impulso per tornare a comporre arriva finalmente una sera del dicembre 1845: di ritorno da un concerto in cui ha ascoltato una sinfonia cui è particolarmente affezionato (la Grande di Franz Schubert), Schumann avverte il desiderio di ritornare a comporre. Pochi giorni dopo, mentre la malattia sembra accennare qualche lieve miglioramento, inizia a scrivere le prime battute della Sinfonia in do maggiore.
La stesura della bozza avviene in soli dieci giorni, ma l’elaborazione e l’orchestrazione (ovvero la traduzione del brano per una compagine orchestrale) impegnano quasi un anno. Non ancora riemerso dal suo malessere, Schumann torna sulla partitura spesso con grande fatica, «strappando a sé stesso, in un doloroso ma benefico sforzo», ogni pagina dell’opera che accompagna il suo processo di guarigione.
«Ho iniziato a scrivere mentre ero ancora mezzo malato e mi sembra che questo si possa avvertire nella musica» - racconterà Schumann - «anche se ho cominciato a sentirmi in me mentre lavoravo all'ultimo movimento, mi sono ripreso completamente solo dopo aver terminato l'intero pezzo».
Il Sostenuto assai - Allegro ma non troppo che apre la Sinfonia è secondo il suo autore «colmo di questa lotta contro la malattia e del suo carattere capriccioso e ostinato». Schumann affida ai primi istanti del movimento uno dei tratti peculiari dell’opera: la contrapposizione fra caratteri musicali differenti. Servendosi dello studio del contrappunto e ispirandosi all’instabilità del proprio umore, sovrappone il canto lugubre degli ottoni allo slancio fiducioso degli archi, imbastendo un dialogo fra due diversi linguaggi emotivi.
Anticipato dallo Scherzo, in cui i violini affrontano un’impegnativa «corsa a perdifiato», l’Adagio espressivo ha invece come protagoniste quattro note che vengono rimestate dall’orchestra come un ricordo doloroso e piacevole al tempo stesso, un’ossessione dalla quale non sembra esserci pace fino alla conclusione del movimento.
Liberata dalla nostalgia dell’Adagio, la Sinfonia si conclude con l’Allegro molto vivace in cui Schumann, ormai prossimo alla guarigione, omaggia la preziosa vicinanza di Clara in quei giorni di malattia citando - come Dvořák - una composizione per voce e pianoforte: An die ferne Geliebte (“All’amata lontana”) di Beethoven, accennata dall’oboe nel cuore di questo ultimo movimento.
I colpi di timpano che concludono la Sinfonia in do maggiore decretano il ritorno di Schumann alla serenità, almeno per qualche tempo.
Più di mezzo secolo dopo la morte del compositore, il filosofo Karl Jaspers avrebbe paragonato certe opere d’arte nate dalla sofferenza dei propri autori «alle perle che nascono solo grazie all’infiammazione delle conchiglie: come non si pensa alla malattia dell’ostrica ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale di queste opere non si pensa al malessere che ne ha condizionato la nascita».
Ascoltando i passaggi più luminosi della Seconda Sinfonia, sembra quasi possibile dimenticare come le sue pagine abbiano raccolto il sedimento di una lotta tenace contro il dolore.
Francesco Cristiani
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26 novembre 2024
Quando nel 1982 una trasmissione della BBC avrebbe consultato alcuni fra i più prestigiosi compositori viventi per raccogliere i loro pareri su l'Adagio per archi di Barber, il premio Pulitzer Virgil Thomson lo descriverà come «una scena d’amore non priva di qualche dettaglio, fluente e riuscita; affatto drammatica, ma anzi molto appagante!». Un giudizio insolito per quello che di norma è considerato «uno fra i brani più tristi mai scritti», eseguito negli Stati Uniti come «musica funebre nazionale» per accompagnare le esequie di Einstein o Kennedy e divenuto nel tempo colonna sonora per film o pubblicità in virtù di un’eccezionale carica drammatica.
Eppure, nella sua particolarità, il commento di Thomson suggerisce fra le righe la cornice ispirata e quieta nella quale l’Adagio viene composto.
Nell’estate del 1936 Samuel Barber, non ancora trentenne, è già riconosciuto come uno dei compositori più promettenti della sua generazione. Da poco insignito del prestigioso Prix de Rome, si trova con il partner di una vita Giancarlo Menotti nelle Alpi austriache per una vacanza all’insegna del lavoro e della ricongiunzione con la natura. Nelle lettere scritte durante quei giorni, Menotti racconta di come Barber «è davvero di ottimo umore, ha litigato con pochissime persone e ne ha insultate solo una o due!».
Durante la sua permanenza, Barber scrive buona parte del Quartetto per archi op. 11, il cui secondo movimento (Molto adagio) è ispirato alla placidità della vita campestre descritta nelle Georgiche di Virgilio e riflessa dalla vallata austriaca. Questa pagina, generata da un’atmosfera tutt’altro che drammatica, non è che l’antenata dell’Adagio per archi.
Nel 1938 infatti Barber trascrive per orchestra d’archi il Molto adagio e lo invia col nome Adagio per archi ad Arturo Toscanini, auspicando che questi ne curi una prima esecuzione. Il celebre direttore coglie da subito il fascino di questa traduzione e ne dirige la prima assoluta in diretta radiofonica con la NBC Symphony Orchestra di New York: inizia così la diffusione di quello che sarebbe diventato il più celebre brano del compositore statunitense.
La première dell’Adagio nel novembre del 1938 viene trasmessa pochi mesi prima dell’invasione tedesca della Cecoslovacchia e dell’inclusione di quest’ultima nella geografia scellerata della Germania nazista. Fra le vittime delle politiche discriminatorie attuate durante l’occupazione della Cecoslovacchia vi è anche il compositore Pavel Haas, che per via delle sue origini ebraiche viene recluso nel Campo di concentramento di Terezín.
Situato a qualche decina di chilometri da Praga, Terezín funge da luogo di facciata da indicare anche a quelle istituzioni - come la Croce Rossa - che si allarmino in merito alla ferocia delle politiche naziste. Il campo di prigionia conta così fra i suoi detenuti scrittori, drammaturghi e musicisti cui viene permesso di scrivere o comporre; possiede un coro, gruppi di musica da camera, un’orchestra e persino una jazz band chiamata - crudelmente - Ghetto Swingers. Quest’atmosfera surreale viene rievocata dallo Studio per archi, composto nel 1943 ed eseguito anche durante le riprese del documentario propagandistico Theresienstadt. Testimoniando la ricerca condotta con tenacia da Haas sul suo linguaggio, lo Studio è attraversato da un’inquietudine sotterranea pronta a manifestarsi in un finale incalzante ed esasperato.
Pochi mesi dopo la composizione dello Studio per archi, Terezín esaurisce la sua funzione propagandistica e i suoi occupanti sono indirizzati verso i campi di sterminio limitrofi: Pavel Haas, non ancora cinquantenne, muore ad Auschwitz nell’ottobre del 1944. Testimone dei suoi ultimi giorni è il dedicatario dello Studio per archi, il direttore ceco Karel Ančerl. Sopravvissuto alla prigionia, sarebbe riuscito a recuperare dopo la fine della Guerra gli spartiti dello Studio - che si credevano irrimediabilmente perduti - dando nuova vita all’opera di Haas.
Settant’anni prima delle tragiche vicende che avrebbero accompagnato la nascita dello Studio per archi, Georges Bizet compone le musiche di scena per L’Arlésienne, testo teatrale firmato dallo scrittore Alphonse Daudet e ispirato a un suo omonimo racconto. La genesi dell’opera vede Bizet e Daudet impegnati in una complicità tutt’altro che scontata. Nell’Ottocento, infatti, un compositore coinvolto nella redazione di musiche di scena solitamente «deve far da spalla al drammaturgo, per il quale non è un collaboratore ma piuttosto una specie di trovarobe aggiunto».
Comparendo a poche scene dal tragico epilogo de L’Arlésienne, nel quale il protagonista si toglie la vita per via di un amore non corrisposto, l’Adagietto accompagna il dialogo fra due personaggi secondari che ricordano con nostalgia il proprio passato. Trattandosi di musica destinata a un testo teatrale, si deve immaginare la sua melodia «commovente e modesta» come una colonna sonora che accompagna con garbo questo incontro.
Nonostante i migliori auspici che ne accompagnano la stesura, L’Arlésienne viene accolta con scherno dal pubblico parigino e la sua première si risolve in un doloroso fiasco. Durante l’esecuzione dell’Adagietto, il direttore de Le Figaro addirittura deride a voce alta i due personaggi in scena e, a spettacolo finito, Daudet esce dal teatro «con le orecchie ancora rintronate dalle sciocche risate che avevano accolto le scene più tragiche». Tuttavia, qualche mese dopo alcune delle musiche scritte per L’Arlésienne vengono raccolte in una prima suite che include anche l’Adagietto: in questa nuova veste, il lavoro di Bizet incontra un successo immediato.
Composto in una cornice idilliaca come il Quartetto da cui è tratto l’Adagio di Barber, scritto da un musicista ceco come lo Studio per archi e abitato a tratti da un sobrio equilibrio affine a quello de L’Adagietto, il Quartetto op. 96 viene scritto da Antonín Dvořák a Spillville nell’estate del 1893. Il compositore risiede in questo piccolo paese nel cuore settentrionale degli Stati Uniti dopo un anno di lavoro a New York come direttore del National Conservatory of Music of America, professione lautamente remunerata che testimonia un riconoscimento ormai internazionale della sua opera.
L’atmosfera quieta e risolta di queste vacanze estive risveglia in Dvořák il desiderio di tornare a comporre dopo ben dodici anni un nuovo Quartetto (eseguito da OFT in una versione per orchestra d’archi in cui le parti originariamente scritte per due violini, una viola e un violoncello sono eseguite dalle rispettive sezioni dell’orchestra, con l’introduzione anche di una quinta parte per contrabbasso).
Alzandosi di buon ora - come suggerito dalle annotazioni sul manoscritto che citano «come splende il sole!» o «sono le sei di mattina» - Dvořák si lascia ispirare dalla campagna lambita dalle prime luci dell’alba. La scrittura procede spedita, al punto che l’opera è pronta in poco più di dieci giorni. «Grazie a Dio. Sono contento. È nato così velocemente!», appunta felice non appena conclusa la partitura.
Il nome Americano, apposto dall’editore di Dvořák, allude non solo al luogo di nascita del Quartetto, ma anche alla presenza in questa pagina di temi che rievocano la tradizione musicale popolare degli Stati Uniti. Non si tratta tuttavia di trascrizioni appuntate e riportate dal compositore, ma piuttosto di invenzioni che ci restituiscono la sua idea di ‘americanità’ in musica.
Una piccola eccezione è presente nel Molto vivace, dove Dvořák non cita un tema popolare bensì il pigolio delle piranghe scarlatte, piccoli volatili che accompagnano le sue passeggiate fra le campagne di Spillville.
Francesco Cristiani
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29 ottobre 2024
Nel cuore dell’estate Johannes Brahms ama rifugiarsi all’ombra delle montagne. Nell’agosto del 1885 la scelta ricade su un piccolo paese delle Alpi austriache, Murzzüschlag: meta sciistica d’inverno, verdeggiante cartolina d’estate. Giunto da Vienna dopo un lungo anno di lavoro, vi si stabilisce dopo essersi presentato alla questura locale come «musicista itinerante»: un eufemismo visto che al tempo, ormai cinquantenne, è uno dei compositori più celebrati d’Europa.
Non appena insediatosi in città, si dedica a lunghe passeggiate fra i boschi che gli servono a «mettere in ordine le idee» per quando, rientrato in casa, compone. Quell’anno, sul tavolino della sua residenza a Murzzüschlag lo attendono i primi due movimenti di una nuova Sinfonia, abbozzata l’estate precedente e ora in attesa di essere completata.
Con l’arrivo dell’autunno, il manoscritto della Sinfonia è pronto. Tornato a Vienna, Brahms invita alcuni critici e musicisti fidati a un ascolto in anteprima dell’opera, eseguita per l’occasione in una versione ridotta per due pianoforti. Alla fine di questa prima esecuzione, l’atmosfera è fredda, persino imbarazzata. Alcuni dei presenti credono in un lavoro forse troppo complesso e cerebrale. In preda all’insicurezza, Brahms manda allora a diversi amici lo spartito del suo lavoro per ricevere qualche conferma della sua buona riuscita. A uno di questi, che gli restituisce un parere entusiasta, confessa: «Sono molto più insicuro di quel che non si creda di fronte ai miei lavori!».
Scrupoli ipocondriaci e un’impietosa autocritica erano infatti stati da sempre compagni di vita per Brahms. Quando era un giovane e promettente compositore, gli avevano impedito per anni di scrivere una Prima Sinfonia. D’altronde, come si poteva scrivere una sinfonia - una sorta di romanzo per orchestra, una delle forme musicali più complesse e definitive - a pochi anni dalla morte di Beethoven? Come si poteva insomma diventare grandi dopo i grandi?
«Non puoi avere un'idea di ciò che si sente, avvertendo dietro le spalle i passi di un gigante», ci avrebbe confessato se lo avessimo incontrato a quel tempo. Solo dopo un lungo e cauto avvicinamento, a quarantaquattro anni Brahms aveva pubblicato finalmente la sua Prima Sinfonia, aprendo un filone di opere arrivato, in quell’estate del 1885, al suo quarto capitolo.
Una Sinfonia n. 4 che, a scapito dello scetticismo della prima esecuzione con due pianoforti, suscita subito l’entusiasmo di diverse figure del panorama culturale cittadino, primo fra tutti il direttore Hans von Bülow, deciso a dirigerla in diverse città europee. Il compositore stesso poi, ascoltandola eseguita in prova, ne rimane soddisfatto. «A me proprio non dispiace» - scrive rinfrancato - «e piace anche ai musicisti» dell’Orchestra di Meiningen, che Brahms stesso avrebbe diretto per la prima assoluta in programma già per la fine dell’ottobre 1885.
La sera della première il pubblico dev’essere rimasto sorpreso dall’assenza di un’introduzione, che predispone invece l’atmosfera nelle prime tre sinfonie di Brahms. L’Allegro non troppo della Quarta Sinfonia infatti entra subito nel vivo del suo racconto, con un tema che sembra sospirato dai violini e poi ripetuto subito, come per effetto di un’eco, dal resto dell’orchestra. A dire il vero, un’introduzione era stata immaginata da Brahms, per poi essere in seguito cancellata, come se avesse urgenza di farci sentire le note che saranno protagoniste di tutto questo primo, drammatico movimento.
Introdotto da singole sezioni dell’orchestra, il secondo movimento - l’Andante moderato - risponde alla gravità del primo movimento con sicurezza e serenità. Si tratta di un momento di passaggio della Sinfonia che conduce verso l’Allegro giocoso, il cui discorso agitato e volubile sembra trascrivere in musica il racconto di una persona felice. Qui di nuovo il pubblico di Meiningen si deve essere sorpreso: il triangolo, finora mai utilizzato da Brahms nelle sue sinfonie, compare per la prima volta a sottolineare i momenti più concitati di questa pagina, compreso un finale che sembra persino concludere, per quanto è assertivo, l’intera Sinfonia.
Il ‘vero’ finale è però affidato all’Allegro energico e passionato, introdotto con la solennità di un coro da tutti i fiati (cui si aggiungono i tromboni, coinvolti qui per la prima volta dall’inizio dell’opera), che eseguono un tema di otto note preso in prestito dalla Cantata BWV 150 di Johann Sebastian Bach. Questa prima esposizione introduce un ciclo di variazioni in cui le otto note vengono elaborate, parafrasate, rielaborate dall’orchestra. Un gioco enigmistico in cui Brahms fa mostra di una straordinaria proprietà di linguaggio, consegnandoci al contempo la sua idea di modernità: l’innovazione, l’originalità, il diventare grandi dopo i grandi è perseguibile solo attraverso uno «studio accanito del passato» che possa renderlo d’ispirazione per le rivoluzioni del presente. E in un Ottocento in cui il romanticismo ha espresso tutta la sua magnificenza, il «passato» musicale cui fa riferimento Brahms è quello limpido, inossidabile, essenziale della musica di Bach.
Il finale dell’Allegro energico e passionato, che mette un punto alla produzione sinfonica di Brahms, viene accolto la sera della prima esecuzione da un pubblico festante: gli orchestrali di Meiningen avevano indovinato la bellezza di un’opera che, sin dalla sua prima esecuzione, avrebbe riscosso un grandioso successo.
Al tempo in cui la Sinfonia n. 4 di Brahms viene scritta, l’Ottocento volge al termine dopo aver contribuito in maniera fondamentale allo sviluppo moderno dell’egittologia. Organizzando numerose e attente spedizioni scientifiche, gli studiosi europei avevano infatti contribuito alla maturazione di questa disciplina, attratti dal mistero dell’Antico Egitto. Un fascino ancora oggi immutato che ha ispirato il compositore Ahmed El Saedi nella scrittura di Egyptian Scenes, opera commissionata da OFT in occasione dei duecento anni dalla nascita del Museo Egizio di Torino.
Invitandoci a immaginare quattro scenari ispirati all’epoca dei Faraoni, Egyptian Scenes rievoca l’antico attraverso il linguaggio della contemporaneità. Nella sua scrittura El Saedi ricorre volentieri alla presentazione di un tema che, affidato inizialmente a un solo strumento, viene poi ripreso ed elaborato dall’orchestra durante la rappresentazione in musica dei quattro episodi.
Come racconta l’autore, il Preludio richiama una parata celebrativa per il Faraone; la Danza del Tempio - preceduta da un’Intermezzo ispirato ai complessi ritmi della tradizione musicale araba - traduce in musica le movenze di una celebrazione rituale; il Finale, da ultimo, ci immerge fra le schermaglie di un’antica battaglia.
Francesco Cristiani
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04 giugno 2024
È stato Massimo Mila a coniare l’espressione «generazione dell’Ottanta» per unificare, dal punto di vista della ricostruzione storica, una tendenza al rinnovamento della musica italiana desiderosa di emanciparsi dall’egemonia culturale del melodramma. Più che un gruppo con una poetica comune, dunque, si trattava di una generazione maggiormente aperta allo scambio con altre culture musicali e a sua volta stimolata dallo sviluppo della conoscenza della musica del passato, in particolare di quella del Barocco e del Rinascimento italiano.
Mila elenca cinque nomi di autori nati tutti fra il 1876 e il 1883: in ordine cronologico Franco Alfano, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella. Non tutti avrebbero seguito la stessa strada, nessuno di loro rimase estraneo al teatro musicale, ma quello di Respighi è l’unico caso in cui sia stata raggiunta una vera e propria sintesi fra linguaggio teatrale e strumentale. Abbandonando molto presto la forma della sinfonia, Respighi optò piuttosto per una soluzione più antica, quella della suite, per legare episodi musicali distinti, tutti caratterizzati da una forte connotazione visiva. Era accaduto con Fontane di Roma nel 1916, quindi con I pini di Roma nel 1924 e con Feste Romane nel 1928, per approdare a una nuova forma di poema sinfonico diverso da quello ottocentesco e più in rapporto con il diffondersi, nei primi decenni del nuovo secolo, di una cultura dell’immagine a portata di un pubblico estremamente ampio grazie all’apporto delle riviste e dei libri illustrati.
Violista nell’orchestra di San Pietroburgo all’età di 22 anni, allievo per la composizione e l’orchestrazione di Nikolaj Rimskij-Korsakov, Respighi portò nella musica italiana un senso del colore e del dinamismo che rappresentava realmente un’eccezione ai suoi tempi. Anche la scelta di rinunciare alla grande orchestra e di far ricorso a un organico più contenuto è dipesa, per lui, dalla volontà di aderire a un contenuto visivo.
Tanto è delicata ed elegante la pittura di Botticelli, tanto lo è l’impressione musicale che ce ne trasmette Respighi nel Trittico da lui scritto nel 1927. Il linguaggio, debitore dell’esperienza che il compositore aveva maturato con la serie delle Antiche arie e danze, è basato su associazioni di idee che evocano la dolcezza della stagione primaverile attraverso il gioco degli abbellimenti e l’allegria dei balli campestri, l’Adorazione dei Magi con il ricorso alla tradizione della musica pastorale, La nascita di Venere tramite l’uso dei modi armonici della Grecia antica e un movimento ondivago, flessuoso, che suggerisce la presenza del mare.
Benché passi per essere un campione dell’italianità in musica, Respighi ha avuto una vocazione internazionale che l’ha portato a cercare e a conoscere notorietà soprattutto all’estero sia come autore, sia come direttore d’orchestra e come pianista, in quest’ultimo caso soprattutto in veste di accompagnatore della moglie, la cantante e compositrice Elsa Olivieri Sangiacomo.
Il Trittico Botticelliano debuttò al Konzerthaus di Vienna nel settembre del 1927 e nello stesso anno, nel mese di giugno, Respighi diresse la prima esecuzione della suite Gli uccelli al Teatro Municipal di São Paulo in Brasile. Si tratta di una serie di trascrizioni che, proprio come in Antiche arie e danze, trasportano nell’orchestra una serie di musiche per clavicembalo o per liuto del Sei e del Settecento. Il Preudio proviene da un brano clavicembalistico di Bernardo Pasquini, La colomba da un pezzo per liuto di Jacques de Gallot, La gallina da una delle più note delle Pièces de clavecin di Jean-Philippe Rameau. Respighi non si limita però a trascrivere, ma aggiunge e inventa: per esempio la sezione finale della Gallina, quasi tutta la parte dell’Usignolo, che si basa su pochi spunti di un anonimo inglese del Seicento e che non manca di citare ironicamente il wagneriano Mormorio della foresta, nonché l’episodio conclusivo, nel quale viene liberamente rielaborata la Toccata sul verso del cucco ancora di Pasquini. Se il rapporto con le fonti è rigoroso, giacché Respighi ne rispetta le melodie, le armonie e i ritmi, la versione orchestrale le rinnova completamente con un gioco di timbri che lavora sui dettagli, ora ponendoli in primo piano ora lasciandoli sullo sfondo, e che appare del tutto in linea con esperienze di mascheramento dell’antico nel moderno a lui contemporanee, comprese quelle della cosiddetta fase neoclassica di Stravinskij.
La Sinfonia n. 92 in sol maggiore di Haydn è conosciuta con il titolo Oxford ma nel 1788 venne composta, in realtà, per un committente francese, il conte d’Ogny, membro della Loge Olympique che organizzava una stagione di concerti a Parigi. Come Haydn organizzasse la gestione della musica che scriveva, e quanta autonomia avesse in questo rispetto alle mansioni che svolgeva a servizio del Principe Esterházy, non è ancora del tutto chiarito dagli storici. Fatto è che egli vendette la stessa sinfonia, insieme ad altre due pur destinate a Parigi, anche al Principe Krafft-Ernst di Oettingen-Wallerstein, e che al momento di ricevere una laurea honoris causa da parte dell’Università di Oxford, nel 1791, presentò come nuova opera sempre la stessa Sinfonia in sol maggiore, che da allora porta appunto quel nome. Il minimo che si possa dire è che doveva giudicarla molto buona, e in effetti anche oggi è ritenuta tra i capolavori assoluti all’interno della sua vasta produzione sinfonica. Sicuramente è anche una di quelle nelle quali Haydn fa più ampio sfoggio di arguzia e di ironia. Lo schema del movimento d’apertura è per lui consueto, Adagio-Allegro, ma la parte introduttiva è eccezionalmente breve e si limita a preparare il tema principale, mentre l’Allegro è spiritoso per il gioco delle imitazioni contrappuntistiche e per un’armonia che, specie verso la conclusione, spazia verso tonalità lontane dal sol maggiore d’impianto. Il secondo movimento è un Adagio in tre parti: un tema di grande bellezza, una sezione centrale più ritmata e una ripresa del tema orchestrata in modo più variato. Nel Minuetto Haydn adotta una scrittura robusta a cui si contrappone la leggerezza del Trio, al quale le cui irregolarità ritmiche conferiscono un aspetto persino umoristico. Il Finale si basa su un tema bipartito, con una semifrase ascendente e una discendente che Haydn continuerà a elaborare per tutto il corso del movimento dando pieno sfoggio del suo mestiere, della sua grazia e della sua ironia.
Stefano Catucci
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21 maggio 2024
In un dipinto che raffigura l’inaugurazione del Teatro Regio di Torino, nel 1740, ai due lati estremi dell’orchestra sono ritratti due fagottisti, probabilmente Paolo Besozzi, autore prolifico per il suo strumento, e Carlo Palanca, virtuoso torinese al tempo celebre. L’opera in scena è Arsace di Francesco Feo, uno dei nomi in vista della scuola napoletana di allora, ma quel che qui interessa è la natura dei fagotti imbracciati da Besozzi e Palanca: strumenti di concezione relativamente nuova e che dalla Francia, dov’erano stati messi a punto durante il regno di Luigi XIV, si erano diffusi rapidamente in tutta Europa. In Italia la presenza del fagotto barocco è attestata inizialmente a Venezia, intorno al 1690, poi se ne seguono le tracce a Parma, Napoli, Milano, Roma e Bologna, dove ne è registrata la presenza per la prima volta nel 1702, fino ad approdare a Firenze nel 1709. I suoi interpreti erano già specializzati, la discussa parentela con la dulciana di età rinascimentale era già dimenticata e d’altra parte la tessitura della musica barocca, che tendeva a polarizzare i suoi registri estremi, aveva richiesto l’ideazione di uno strumento a fiato basso, che rinforzasse la percezione dell’armonia e all’occorrenza partecipasse alla realizzazione del basso continuo.
Il fagotto barocco era diviso in quattro parti, disponeva di tre chiavi e aveva un’articolazione diversificata, in parte corta e sottile, in parte lunga e più spessa con un’ala in alto e un’uscita a campana in basso. Passando da una regione d’Europa all’altra, però, il registro dell’accordatura poteva cambiare: sappiamo che in Francia aveva una sonorità più cupa, con il La corrispondente a una frequenza di 390 Hertz, e in Italia più brillante, salendo a 430-440 Hertz, cosa che poi divenne la regola anche nel Nord Europa. L’inventario del Pio Ospedale della Pietà di Venezia, dove Vivaldi prestò servizio dal 1703 al 1740, conta il possesso di una dulciana nel 1662 e di due nuovi fagotti a partire dal 1718. I 38 Concerti che Vivaldi dedicò a questo strumento, due dei quali incompleti, e ai quali se ne dovrebbe aggiungere uno “doppio” per oboe e fagotto, datano tutti fra il 1720 e il 1741. Come ha scritto Eleanor Selfridge-Feld in un saggio dedicato alla musica strumentale veneziana di inizio Settecento, «Vivaldi tratta il fagotto con una notevole facilità e familiarità, scrivendo con una vena che sembra vena molto più libera rispetto al suo trattamento di altri strumenti a fiato. L’idioma dello strumento è modellato su quello del violino: arpeggi, scale rapide, bassi albertini diventano elementi standard del suo linguaggio per questo strumento, insieme a salti che ne coprono l’intera tavolozza sonora». Il basso albertino, fra parentesi, è un tipo di accompagnamento arpeggiato che produce una base ritmica omogenea per la melodia e che prende il suo nome da un compositore veneziano, Domenico Alberti, che a inizio Settecento ne fece largo uso sul clavicembalo.
L’osservazione di Eleanor Selfridge-Feld, però, fa riferimento al modo in cui Vivaldi ha assegnato al fagotto un ruolo di solista, piuttosto che di accompagnamento o di riempimento. È proprio il suono gutturale, opaco del fagotto ad averlo attratto per coglierne tanto i lati patetici quanto quelli brillanti. Alternando lirismo e virtuosismo, cantabilità e agilità, Vivaldi ha inventato un lessico musicale e sentimentale che avrebbe marcato l’esistenza musicale del fagotto ben oltre l’epoca barocca, attraversando anche le successive migliorie tecniche dello strumento.
La tonalità di Sol, comune a tutti i brani in programma, nella musica di Vivaldi trasmette oltretutto un ampio spettro di sentimenti: vitalità, arguzia e piacere disinibito quando è maggiore, furia, ansia, dolore e lamento quando è minore. Così nel Concerto per archi e basso continuo KV 156 si assiste a una tipica combinazione di contrasti dinamici, complessità ritmica, senso drammatico e dialoghi orchestrali che sfociano in un’eccezionale, specie per l’epoca, intensificazione espressiva.
L'Adagio e fuga in do minore di Mozart nasce nei primi anni del suo trasferimento a Vienna, 1782-83, ma risente sia del suo stile precedente, sia degli esercizi che stava allora compiendo sul contrappunto: dalla trascrizione per quartetto d’archi e per strumento a tastiera di alcune Fughe di Bach, tratte dal Clavicembalo ben temperato e dall’Arte della fuga, fino all’abbozzo di una trascrizione per clavicembalo di una Fantasia di Froberger. Inizialmente si trattava solo di una fuga in do minore concepita per due clavicembali. Diversi anni dopo, nel 1788, Mozart vi aggiunse un’introduzione Adagio articolando il tutto in una scrittura a quattro parti per strumenti ad arco.
A partire dal 1930, tornato in Brasile dopo un soggiorno di sette anni a Parigi, Heitor Villa-Lobos si dedicò intensamente a un ruolo di diffusione del repertorio classico nel suo paese, con un’attività infaticabile di direzione d’orchestra e di promozione dell’educazione musicale. Con l’iniziativa “Excursão Artística Villa-Lobos” attraversò molte città del Brasile portando la musica classica dove non era mai stata prima, mentre con la pubblicazione di spartiti e arrangiamenti della “Colleção Escolar”, base per il lavoro di docenti e studenti nelle scuole, alternò rielaborazioni di danze brasiliane con trascrizioni per coro o per piccoli ensembles di opere classiche. La “Colleção Escolar” fu d’ispirazione per le celebri Bachianas Brasileiras ma anche per altri brani che si rifanno a materiale di origine popolare come le Cirandas, melodie giocose e per lo più infantili che Villa-Lobos elabora senza perderne il sapore originario, ma trasfigurandole in sofisticatissima eleganza. Quella chiamata Ciranda Das Sete Notas venne fin dal principio destinata al fagotto, strumento che ne rimane protagonista anche nella successiva versione di Villa-Lobos per duo con pianoforte. La prima esecuzione, diretta dall’autore, ebbe luogo a Rio de Janeiro nel 1933. Le sette note sono quelle che compongono una sorta di scala in do maggiore, dal do al si, ma che di fatto danno vita a un disegno circolare che attraversa tutta la composizione. Esposte inizialmente in contrasto con il cromatismo di quelle che le accompagano (si - si bemolle – la – sol diesis – sol– fa diesis – fa), vengono per così dire chiarite dal fagotto, al quale Villa-Lobos assegna una scrittura agile e brillante che spazia lungo tutta la sua estensione sonora, salvo farsi più lirica nelle parti lente, dove il solista sembra quasi commentare il materiale musicale affidato all’orchestra d’archi.
Stefano Catucci
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Orari di apertura al pubblico
Tutti i martedì: 10.30-13.30 / 14.30-18
La settimana precedente il concerto di stagione:
martedì, mercoledì, giovedì e venerdì 10.30-13.30 / 14.30-18
Il lunedì della prova generale: 10.30-13.30 / 14.30-16.30
C.F. 97591360017
P.I. 08528040010